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Interviste

2010

Filippo Manzini

Interazione con una linea

Intervista a Filippo Manzini (artista partecipante nella mostra collettiva 25 hours a day) di Angelika Stepken.


Il tuo punto di partenza all' Accademia è stato la pittura. Quando hai deciso di abbandonarla e perché ?

Durante il primo periodo all'Accademia, realizzavo dei lavori informali; il passo successivo è stato la sintesi della tavolozza dei colori mantenendo però come base il supporto pittorico. Questo è successivamente diventato lo spunto per l'inizio dei lavori su carta, che risale al 2004, tre anni dopo la conclusione del mio percorso all'Accademia. La carta non è solo una sottrazione materica rispetto ai lavori pittorici ed i loro supporti bianchi; infatti lavoravo anche con tela grezza monocroma, colori tendenti sempre al bianco e al grigio. La carta non è semplicemente una scelta di supporto...

Come è avvenuto il passaggio da un materiale all'altro? Cosa ti ha portato dal colore bianco alla carta? L'idea del vuoto? O forse l'idea del colore?

Il passaggio è dovuto ad un'intuizione: l'idea di trovare delle proporzioni senza l'utilizzo del colore, solo avvicinandomi alla tridimensionalità. Con la sottrazione su carta riuscivo ad ottenere un lavoro che si avvicinasse alla pittura, vicino al disegno, ma allo stesso momento fortemente legato alla materia.

Per evitare il livello di rappresentazione nella pittura?

Non ho mai sentito il desiderio di descrivere un'emozione con i miei lavori, mi è sempre interessato di più il rapporto che può avere il mio lavoro con il mio essere e il mio modo di vedere lo spazio. Iavori che ho esposto in 2007 alla Galleria Frittelli sono nati dallo studio delle superfici di tutto ciò che ci circonda: le superfici delle case, gli intonaci, le screpolature sulle superfici, differenze di proporzione che possono essere quasi chiamate bassorilievi, sempre per il loro forte legame con la scultura.

Stai parlando delle superfici delle case, ma una casa è già in se uno spazio chiuso...

Sì, è uno spazio chiuso dove il mio interesse percettivo si relaziona a ciò che mi sta attorno, allo spazio architettonico. Nei lavori esposti di questo periodo traspare un doppio modo di vedere lo spazio: spazio interno, quello della carta, e spazio esterno, quello legato alla percezione della profondità della prospettiva. Tutto si lega a ciò che poi decide l'atto di lavorare direttamente sulla carta che non ha una finalità descrittiva ma è più una conseguenza legata ai processi.

Alcune volte sei entrato così tanto nella carta da perforarla, si potrebbe parlare di momenti di iconoclastia, di distruzione...

I miei lavori sono tra loro molto differenti: alcuni sono molto liberi e il loro processo diventa fine a se stesso. La relazione tra foglio e spazio (che io domino e controllo), diventa un modo per giungere ad una distruzione totale della carta, sempre fino al momento in cui io decido che il lavoro è terminato... È una relazione che c'è sempre anche in pittura: quando si decide che quel determinato lavoro è terminato? È comunque il momento che prende questa decisione.

Da una parte tratti la carta come un materiale, entri al suo interno, ne togli alcuni strati; se invece poi si guarda la carta come un'immagine, la sua lacerazione è anche un attacco all'immagine…

È una distruzione, ma allo stesso tempo è anche la ricerca di un codice interno alla materia, come qualcosa che cerca di emergere. Io ricerco questa matrice, i piccoli segni che poi sono lacerazioni della scultura.

La carta è già di per se molto sottile, eliminandone alcuni strati fino a perforarla, realizzi un qualcosa di passeggero, effimero, qualcosa che può essere paragonato ad una finestra.

È l'entrare direttamente dentro, superare lo spazio che mi è stato dato, o che piuttosto mi do io, andare oltre questa dimensione, è quasi il superamento della costrizione, liberarsi dal limite del supporto.

Così il processo si fa anche dialettico, ambiguo. Di solito la carta e il disegno sono sempre in strettissima relazione con la mano dell'artista, con la traccia del corpo, nei tuoi lavori c'è invece una negazione di questo.

Il mio lavoro non si realizza, come in pittura, in una finalità espressiva o a livello decorativo- cromatico, ma si realizza a livello di processi. Il fine del lavoro è la sua scansione temporale, la suddivisione dei vari momenti della lavorazione sulla materia, che è ciò che diventa visibile per il fruitore. Non c'è mai un lavoro diretto, nonostante sia basato sulla fisicità, sulla sottrazione della materia, è un processo quasi meccanico che trova la sua realizzazione in qualcosa di leggero, un atto unico e non vari processi, una ricostruzione.

È come un fotogramma, dove il tempo dell'azione si ferma.

Sì, l’azione che toglie la materia per creare qualcosa di nuovo, una rigenerazione.

Quest' effetto assomiglia alla riproduzione nei tuoi lavori sulle coppie?

I lavori multipli, e specialmente i dittici, sono nati nel periodo accademico. Alcuni lavori sulla sottrazione si avvicinano per sequenze e formano delle coppie; in alcuni casi ci sono come due linee dell' orizzonte, due intervalli di tempo scanditi da altezze e profondità diverse.

I lavori fotocopiati sono infatti più come delle incisioni, ma senza entrare fisicamente nella materia, rimanendo pura superficie.

Le fotocopie sono il passo successivo. Si tratta sempre di portare avanti il lavoro sulla proporzione, sulla profondità e sul segno, anche se sempre in maniera indiretta, ponendo il mio lavoro sul piano di un passaggio meccanico in cui c'è uno scarto, una piccola differenza di segno che rende il lavoro fresco ma nello stesso momento cristallizzato e bloccato in un preciso attimo...Questi piccoli segni su fotocopia risultano perciò come delle incisioni, basate sul contatto fisico con la materia. Mi sono sempre interessato alla percezione dello spettatore; l'idea di un segno che non è il segno diretto dell'artista, rimanda a qualcosa di tramutato nel tempo, che ha un corso. I lavori fotocopiati sono appunti di viaggio che descrivono gli attimi in cui il mio pensiero affiora alla superficie e contemporaneamente si spinge verso la tridimensionalità. Come nei lavori vecchi, soprattutto nei lavori della carta piegata, la luce acquista un'importanza fondamentale. Tutti i miei lavori gravitano attorno allo stesso ambito.

L'importanza della luce è evidente nei tuoi lavori fotocopiati, la luce è il mezzo che poi permette ad una fotocopia di esistere.

In tutti i lavori gioco con il chiaro e lo scuro, con dei momenti di oscurità totale, lavori neri, dove incido e fotocopio l'atto per raggiungere un lavoro nuovo, differente. Questi lavori sono collegati dall#idea di profondità, che cerco di superare trovando nuove atmosfere.

Hai parlato del processo temporale, della luce, dello spazio; nei lavori fotocopiati e nella carta piegata parli di spazio architettonico, come uno spazio che si apre e non si chiude, o come il paradosso di spazi simultanei?

Sono tutti lavori in divenire, processi di spazi in cui si hanno aperture e chiusure in movimento, è un lavoro che si manifesta in dittico o sottoforma di lavoro multiplo, dove segni e simili si muovono nello spazio creando nuove proporzioni e nuove profondità in un unico singolo foglio.

Come nasce l'idea di spazi che si muovono?

Due o più rette che si incontrano, sono sempre presenti nel mio lavoro e nel mio modo di vedere gli spazi; anche nel disegno c'è la presenza di vettori, linee che convergono, si uniscono e trasformano lo spazio.

Ad ogni modo esiste comunque una dinamica, sia che si tratti di spazi architettonici che di vettori.

La dinamica è data dalla luce e dalle ombre, luce radente che crea ombre che danno doppi segni, i quali a loro volta conferiscono ambiguità al disegno, un movimento che la pittura non potrebbe mai rendere..Si viene così a creare il passo successivo: lo spazio dinamico diviene paesaggio. In questi nuovi lavori, nei paesaggi - confini, la linea di orizzonte non viene più creata con la sottrazione su carta, ma con la sovrapposizione di pigmento che proviene da un pulviscolo di spray depositatosi sul foglio. É più un atteggiamento che deriva non da un processo, ma dalla tecnica che utilizzo per permettere allo spray di entrare in maniera sintetica e minimale nel o sul foglio di carta, in questo spazio di lavoro, all'interno del quale si creano delle labili proporzioni di ombre come se scivolassero via dallo spazio di lavoro stesso.

È una tecnica che hai scoperto casualmente o hai cercato di trovare un'altra immagine- paesaggio?

Sono intuizioni che nascono da un lavoro precedente, o casuale, ho sempre un'idea, una percezione del lavoro già finito che si realizza poi in maniera molto semplice. Nelle ultime opere, l'utilizzo dello spray è stato dettato dall'esigenza di iniziare a lavorare con la sottrazione, (come ho sempre fatto). Quando ho iniziato a sovrapporre elementi su carta, come atto minimo, è stato un voler aggiungere qualcosa di piccolo, dei piccoli dettagli... Notavo che effettivamente quello che io desideravo si realizzava, un pulviscolo di energia, piccoli frammenti di pigmento formano una linea marcata e contemporaneamente smaterializzano il colore spingendolo verso il niente, verso la sottrazione, evocando un paesaggio in mutamento, in evoluzione, in discesa. Potrebbe essere una linea di orizzonte del mare, una dissoluzione, la linea di orizzonte di un cratere di un vulcano in eruzione, un'isola ferma dietro la quale si crea una sorta di mancanza, come degli scatti, perché il lavoro in sequenza rimanda quasi all'idea di un film, nel quale esistono delle zone che limitano la creazione del movimento e dell'energia e altre invece che sono come il silenzio di un confine in fermento. Oltre ad esserci la sensazione di un'energia che sale, c'è anche un'energia che scende, volumi che si alzano e si abbassano e scompaiono alla vista del foglio... È sempre il limite che mi do, che mi voglio dare.

Mi sembra che i lavori con lo spray come quelli con filo d'acciaio si aprano più a quello che è esteriore al foglio, al piano limitato del immagine.

Sì. È come se avessi prima interagito in una stanza, in uno spazio chiuso, e poi aperto una porta, vedendo in un secondo momento che l'ambiente mi porta a tornare dentro il lavoro... I lavori con i fili d'acciaio sono come dei lavori embrione, che vogliono portare l' atto creativo verso un lavoro sicuramente più tridimensionale, sono un passaggio.

Rifacendomi a ciò che ha scritto Pier Luigi Tazzi, gli oggetti hanno forma debole e trovano la forma soltanto attraverso la tensione verso il muro o la parete.

In alcuni atteggiamenti il mio lavoro si dirige verso una composizione di spazi geometrici mai chiusi, non sono mai forme che si contraggono, si legano e creano uno spazio chiuso, ma sono forme che si aprono come nel caso dei fili d'acciaio, forme delicate e labili e, in un certo senso, deboli.

Hanno a che fare con l'elemento del tempo, del temporaneo; sono appesi al muro, hanno una forma, ma poi quando vengono staccati da esso, la forma si dissolve.

È una tensione che compongo in relazione allo spazio; al momento del distacco da questo spazio, l'opera diventa più mobile e più astratta, nel senso che può assumere più forme, perché sono forme aperte, hanno una propria libertà, che forse è ciò che rende questi lavori unici.

Le linee che crei con il filo d'acciaio non sono precise, non sono dritte, due fili non sono mai uniti perfettamente.

Nasce dall'idea di realizzare un oggetto che si allontani dal design, dall'industria e dal lavoro artigianale specializzato, dove sicuramente i fili sarebbero tesi, perfetti, saldati, le proporzioni precise, realizzare quindi un oggetto più duttile, legato al momento, e alla precarietà che annoda i fili tra loro, un gioco che fa in modo che i pezzi siano riproducibili ma mai identici, che vivono dell'atto, anche se minimo.

Le opere dei fili d'acciaio e quelle di carta presentano forti richiami all'arte degli anni 1970. Quanto è importante per te la storia dell'arte?

Spesso è stata una vera e propria sorpresa riconoscere in altri delle attitudini simili alle mie, per il fatto che non ho mai cercato di lavorare ispirandomi ad altri artisti di riferimento. Posso infatti avere delle passioni per qualcuno di loro, e quindi non posso non notare un avvicinamento di alcuni dei miei lavori a opere dell'arte degli anni 1970, ma il mio modo di lavorare e mettermi in discussione con me stesso cerca sempre e comunque di allontanarsi dagli altri artisti, in maniera del tutto spontanea. È come se entrassero tutti all'interno del mio lavoro come citazione, distaccandosene però totalmente per mancanza di continuità; vengono meno l'accanimento, la perseveranza di Manzoni per i suoi acromi, o di Castellani con la carta o con la tela estroflessa ed introflessa.

I due lavori che hai intitolato Strumenti sembrano distanziarsi un po' dal contesto, forse per il titolo, o forse perché subentra l'elemento del suono anche se poi sono lavori muti, mi interessava chiederti se sono lavori da cui poi nascerà qualcosa di nuovo.

Questi due lavori aprono nuove possibilità specialmente per l'utilizzo di nuovi materiali, opere con la caratteristica della fragilità, dell' elasticità, della trasparenza. L'interazione che le due opere hanno con il titolo voleva essere probabilmente una mancanza: l'aver creato degli strumenti è forse il limite vero di questi lavori, cioè l'atto di essere forse troppo degli strumenti che in realtà non sono, per il formato, il materiale, l'interazione con la vibrazione, era un'esigenza che volevo questi lavori avessero.

E poi hanno in se un' opzione che si esprime solo in potenza: uno strumento di solito suona solo quando viene usato, invece questi strumenti sono da guardare.

Volevo creare un lavoro di essenzialità, di trasparenza con l'invisibilità, ammiro i lavori non-lavori, gli oggetti non-oggetti, cioè qualcosa che si descriva e che non si descriva, che in un certo senso si perde. Mi interessa la mancanza di oggettività nel lavoro, sono per l'enigma che può essere legato ai processi o alle domande che si può porre l'osservatore dell'oggetto e sul perché esso sia stato creato. Desidero esprimermi ed impegnarmi di più nella resa del virtuale.

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