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Interviste

2008

Aslı Sungu

Sticky & Faulty...

Aslı Sungu (Vincitrice del Premio Villa Romana 2008) a colloquio con Angelika Stepken.

Nel 1993 ho cominciato a studiare pittura all'Accademia di Istanbul. E' stato uno studio molto duro e impegnativo, c'erano solo tela e colore, tutto il resto era vietato.


Sapevi che cosa ti aspettava, quando hai cominciato a studiare pittura? Sapevi che cosa avrebbe significato diventare un'artista?

Volevo assolutamente diventare una pittrice, all'inizio non potevo pensare ad altro. All'inizio questo studio classico è stato anche divertente, ma più tardi ho dovuto ammettere che mi mancava qualcosa. Si trattava solo di forma. Ho fatto un anno di pausa, durante il quale ho conosciuto Ayse Erkmen. Grazie a lei ho cominciato a riflettere su cosa significhi realmente essere un'artista e sull' idea di andare a Berlino. I miei genitori pensavano che prima dovessi prendere un diploma in Turchia, poi invece hanno appoggiato il mio progetto di Berlino. Quindi ho sostenuto l'esame e l'ho superato per un soffio.

L'hai superato per poco perché i tuoi lavori non rispondevano alle attese?

Per l'esame dovevo dipingere ritratti e copie. Ho fatto la copia di un dipinto di Gerhard Richter e una serie di autoritratti di grande dimensione dai lineamenti sfumati. I professori li hanno trovati piuttosto brutti. Pensavano che l'arte contemporanea fosse una moda, che va e viene, e che alla fine sarebbe ritornata la vera pittura.

Stai parlando di non più di dieci anni fa. La scena artistica di Istanbul da allora è molto cambiata, com’è oggi la situazione nelle Accademie?

Nella mia Accademia, nelle classi di pittura, oggi è esattamente come allora. Alle pareti sono appese ancora riproduzioni degli espressionisti, la storia dell'arte arriva fino a Marcel Duchamp. In altri indirizzi invece, per esempio in quello di grafica e design, il corso di studi è molto interessante.

Hai seguito le prime Biennali di Istanbul alla fine degli anni Ottanta?

Secondo me questa manifestazione ha cominciato a essere interessante solo con l'arrivo di René Block nel 1995. Per esempio in quella occasione venne Ben Patterson e noi abbiamo partecipato attivamente alla sua Fluxus-Performance.

Prima hai detto qualcosa sulla quale vorrei tornare – cioè che hai fatto un tuo autoritratto. Nei video più recenti torna nuovamente questo aspetto: ti mostri davanti alla videocamera. E anche i tuoi genitori sono un tema ricorrente nei tuoi video. I genitori che ti appoggiano e allo stesso tempo di vogliono plasmare, così come ci si aspetta da loro in ogni società.

Nel video Ganz die Mutter /Ganz der Vater (Tutta sua madre /tutta suo padre) del 2006 ho chiesto ai miei genitori come si immaginassero la loro figlia e li ho pregati di vestirmi di conseguenza. Volevo semplicemente vedere che idee avessero in testa riguardo alla loro figlia e chi io fossi veramente. Talvolta penso di essere curiosa di sapere che aspettative abbiano gli altri, ma anche quali siano le mie.

Che cosa intendi dire?

Quando per esempio ho fatto questo lavoro con la camicia Steckengeblieben (Incastrata), 2003 la mia idea era quella di cercare un'attività che fosse per me di difficile esecuzione senza l'aiuto di una terza persona. Allora mi sono fatta cucire una camicia con i bottoni di dietro. Sapevo che sarebbe stato impossibile abbottonarli da sola, ma volevo vedermi in questa situazione. Questa è stata una di quelle idee che mi vengono in mente, rimangono lì, mi occupano i pensieri e infine sono quelle con cui lavoro. Spesso si tratta di esperienze deludenti, che finiscono con un fallimento o in cui commetto degli errori.

Ma tu mostri tutto questo con un piglio comico, talvolta con tratti in stile slapstick perché accade veramente quello che uno ha previsto…

Si vede sempre una sequenza di qualcosa che forse ha avuto un inizio e dovrebbe avere una fine. Ma la donna con la camicia, per esempio, non può andare né avanti né indietro. Si pensa che voglia indossare questa camicia ed essere elegante per uscire. Ma non può andare via, non può abbottonarsi da sola la camicia. Rimane bloccata in questa situazione. Nel lavoro sulla cucina (Pfhh!, 2002) dove gli oggetti cadono continuamente insieme alla mensola, avevo un'idea simile: questi oggetti sanno qual è il loro posto, ma non possono starci e cadono giù. Ma sono testardi, vogliono in tutti i modi restare attaccati alla parete, anche se sanno che non è possibile.

Questo impiego della sequenza significa anche che non ti interessa muovere dei rimproveri o attribuire delle colpe. Il film finisce e non è cambiato nulla.

E' vero. Girare i film paralleli con i miei genitori è stata un’esperienza interessante. La videocamera per i miei genitori rappresentava la società, come se con noi nella stanza ci fossero migliaia di persone. Non eravamo da soli con la videocamera.

Ma tu eri avvantaggiata in quanto professionista.

Per me andava tutto bene. Se faccio un lavoro davanti alla videocamera non mi sento nuda. Mia madre voleva vestirmi come una ragazzina, perché pensava che così lei e gli altri mi avrebbero trovata carina. Mio padre aveva delle idee diverse, mi vedeva piuttosto come una manager. Naturalmente conoscevo queste idee, e ci furono delle discussioni in merito. Ma ho voluto vedere lo stesso cosa veniva fuori e l'ho girato. Sono una donna adulta; mettermi davanti a mia madre e farmi vestire da lei è stata per me un'esperienza interessante.

Ma era anche un gioco con strutture di potere tra genitori e figlia, con attribuzioni di ruoli in relazioni al sesso e con il potere della regia. Tutti voi avete agito in modo autentico e allo stesso tempo coscienti di essere davanti alla videocamera.

Me ne sono accorta dopo: all'inizio i genitori dicono sempre che cosa devo indossare. Poi a un certo punto sono io che comincio a fare molte domande: Va bene, è bello? E' a posto? Cosa ne pensi? L'equilibrio tra di noi cambia. Alla fine mi trovo di nuovo nella posizione di una bambina.

Questo ricorda la dinamica nel tuo nuovo film in quattro parti (Faulty [Sbagliata], 2008), in cui l'assistente del dentista ti osserva mentre ti lavi i denti, ti critica e a un certo punto cominci ad essere insicura e a fare domande…

Sì, comincia in modo normale, mi lavo i denti. Ma una critica veemente mi rende insicura. Alla fine o aspetto delle indicazioni o chiedo che cosa devo fare.

Un po' come subdoli, ma inesorabili passaggi verso la sottomissione?

No, non lo vedo in modo così estremo. Sono io che ho interpellato questi professionisti, gli ho chiesto di venire a casa mia.

I tuoi film però hanno a volte toni tristi, nostalgici, come in Missing, in cui proietti sulla parete i messaggi lasciati da tua madre nella segreteria telefonica di Berlino.

Questo era il mio contributo alla mostra dedicata a Istanbul nel 2006 al Martin Gropius-Bau. Ho riflettuto su cosa mi legasse ad Istanbul e ho capito che erano le telefonate di mia madre. All'inizio mi sono sentita in colpa…

Perché hai mostrato l'intimità della tua famiglia in un lavoro?

No, per questo non ho sensi di colpa. Mi sento bene quando lavoro con queste cose, ne ho bisogno. Quello che mi dava pensiero erano i contenuti delle telefonate: le preoccupazioni e la nostalgia di mia madre a causa mia. Ho raccolto i suoi messaggi per un anno, non per il lavoro. Non sapevo cosa farci, ma non potevo cancellarli. Allora li ho animati. In Missing si sente la segreteria telefonica e i messaggi di mia madre in turco, ma sulla parete appaiono e sfumano le stesse frasi in tedesco, come se la parete inspirasse ed espirasse.

La tua casa, la tua famiglia sono un grande tema nei tuoi lavori ed hanno per lo più una connotazione positiva. Quando nel 2005 hai trascorso un mese a Beirut, hai girato un film sulle case ed uno sugli interni dei negozi.

Io trovo nella vita quotidiana, con i suoi oggetti e le sue attività, i miei temi e i miei pensieri più ricorrenti. A Beirut ero curiosa e sorpresa. Di giorno vedevo molte case abbandonate che mi davano l'impressione di crollare al solo sfiorarle. Ma la sera si vedevano luci accese e appartamenti ben arredati con fiori e libri. Erano soprattutto case piccole di due piani del periodo coloniale francese. Il governo libanese le voleva radere al suolo, ma la maggior parte degli abitanti si è rifiutata di lasciare i propri appartamenti dopo la guerra. Ho suonato a due porte e ho parlato con gli inquilini.

Cioè ti ha commosso la loro resistenza? Il fatto che non si siano arresi?

Sì, mi hanno raccontato che rimangono nelle loro case anche se la città dopo la guerra è stata divisa nel settore musulmano, in quello cristiano e in quello armeno. All'epoca non organizzarono nessuna grande protesta, semplicemente hanno continuato a vivere lì tutti insieme. Hanno deciso di adottare un atteggiamento ostinato e testardo.

Avevi dei progetti speciali quando sei andata a Beirut?

Avevo letto molto sulla città e sul vicino Oriente. Ma le idee mi sono venute sul posto. Una non l'ho potuta realizzare a causa della situazione militare. Nel secondo video ho cercato e filmato le piccole immagini religiose nei negozi. Entro nei negozi e mi rendo subito conto che c'è qualcosa: in quelli musulmani si tratta spesso di una pagina del Corano e una preghiera, in quelli cristiani di un'icona di Gesù. Le immagini sono piccole. La merce non è diversa nei negozi musulmani o cristiani, ma quando la videocamera cerca le piccole immagini, è come se anche le mele o i gioielli avessero all’improvviso un significato religioso.

Torniamo indietro al tuo trasferimento da Istanbul a Berlino. All'epoca sei venuta a Berlino per studiare?

Sì, per l'arte e per studiare. A Berlino ho avuto per la prima volta un mio appartamento. Ho studiato tedesco per un anno e mi sono chiesta se potevo lavorare nel campo dell'arte. Tutto ciò che era nato fino a quel momento non lo consideravo arte.

Quando hai preso per la prima volta una videocamera in mano?

Nel 2002. Tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento aveva a che fare con le pareti. All'epoca avevo un appartamento nuovo con le pareti in cartongesso. Qualsiasi cosa appendessi, veniva giù. Vedevo queste cose cadere e le ho filmate. Tutto è cominciato così. Quella era un'idea e le idee hanno bisogno di essere realizzate. I lavori sono quello che accade durante le riprese. Non c'è nessuna post-produzione, non riesco a pensare così.

Quando hai preso in mano la videocamera però non hai abbandonato la pittura…

No. Sapevo che non potevo continuare a dipingere così come avevo im- parato all'Accademia. C'erano dei motivi per cui non potevo dipingere, e allora mi ci sono opposta con il mio lavoro.

Puoi citare un esempio?

La pittura mi sembrava un'illusione, i colori si uniscono per mostrare qualcosa che non esiste, hanno un carattere rappresentativo. Allora ho eseguito questa pittura da pavimento alla parete (Mein Zimmer [La mia camera], 2000), cioè ho dipinto il parquet del mio appartamento di Berlino, molto semplicemente, dando delle pennellate su e giù, come potrebbe fare chiunque ne avesse voglia.

Il tuo rapporto con la pittura ha a che fare con una tradizione non cristiana dell’immagine?

Mi sono sempre interessata alla storia della pittura in generale, non di quella cristiana o non-cristiana. Prima di studiare a Berlino ho letto molte cose di e su Daniel Buren, Sol LeWitt e Bruce Naumann, che ha iniziato proprio con la pittura. Con Make Up, 2002 ho quindi cercato di mostrare la parete da sola, abbellendo, coprendo solo i punti rovinati con un trucco pittorico. Un po' come in Ganz die Mutter /Ganz der Vater. Ho cercato di vestire la parete, abbellirla, correggerla, così come avevo chiesto ai miei genitori di fare con me a seconda di come sembravo più bella ai loro occhi.

Vuoi dire che un abbellimento del genere viene eseguito concretamente su una realtà plastica, corporea, non è come un paravento. Eppure i tuoi lavori nascono da immagini…

Sì, e anche dalla possibilità di fare qualcosa in modo diverso.

… affinché l'immagine non distragga dal corpo o dia una sensazione di manipolazione?

La realtà pittorica non dovrebbe distrarre dalla parete. Parete e colore si possono anche unire e agire insieme.

Lo sfondo dell'immagine e il motivo diventano una cosa sola, come nel tuo nuovo lavoro Sticky (Appiccicoso). Il colore da parete diventa la parete di colore. Ma sei tu che scegli il colore, il formato, il tipo di costruzione della parete.

La sezione di parete è grande come lo spazio tra le due finestre nel mio apparta-mento di Berlino, circa 130 x 300 cm. Il mio atelier qui a Firenze fra l'altro è altrettanto grande.

Anche qui dunque lo spazio è importante.

Sì, e la tonalità di colore tono proviene da un vecchio muro arancione della Humboldt-Universität. Si trovava proprio davanti alla mia finestra, e rappresentava l'unica vista del mio vecchio appartamento. Questa parete cambiava colore a seconda della luce del giorno, come se si cambiasse vestito. La mattina e la sera sembrava quasi di un arancione irreale. Prima di dipingere il parquet ho dipinto interruttori e prese di corrente della presa su piccoli pannelli di cotone pressato di 8 x 8 cm e poi li ho attaccati alla parete, come se interruttori e prese potessero stare lì. Ho pensato che, se dipingo, allora devono essere cose che possono stare alla parete.

La luce e la sua forza immaginativa e illusoria rivestono un ruolo importante anche nel tuo breve video Als Ob (Come se), 2003.

Sì, nel buio ho notato una proiezione sul vetro della finestra, come se la lampadina avesse voluto in realtà essere la luna piena, ma non ce l’avesse fatta. Quando si spegne la lampada, la luna piena sparisce dalla finestra. Nel video si vede la lampada per 40 secondi prima che si spenga la luce. L'illusione però è evidente per tutto il tempo: si vede chiaramente il filo della corrente collegato alla lampada.

Pensi che il tuo lavoro di ricerca sull'immagine nella pittura possa esaurirsi?

Non lo so esattamente. Continuerò a lavorare, finché non mi ripeto.


Pubblicato per la prima volta nel catalogo della mostra Freisteller nel Deutsche Guggenheim, Berlino. (c) Gli autori e la Deutsche Bank, Francoforte 2009.

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