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Interviste

2011

Marco Biagini

Evidenza e la realtà dell'attimo

Intervista a Mario Biagini (Pontedera) di Angelika Stepken e Paolo Emilio Antognoli Viti.

Mario Biagini è direttore dell'Open Program del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, uno dei due gruppi di performance che a Pontedera continuano il lavoro di Grotowski dopo la sua morte avvenuta nel 1999. Jerzy Grotowski ha'rivoluzionato il teatro nella seconda metà del 900 smascherando l’attore, includendo lo spettatore come testimone e perorando la causa del teatro povero. I suoi termini dell'arte come veicolo o l'arte come presentazione – le due estremità di una catena –hanno influenzato fino a oggi il lavoro presso il Workcenter. Per il 25esimo anniversario il Workcenter realizza numerose attività – performances, workshops, seminari, proiezioni di film – negli Stati Uniti, Francia, Canada, Brasile e probabilmente anche in Cina e Cile. Angelika Stepken e Paolo Emilio Antognoli Viti hanno intervistato Mario Biagini poco prima della partenza dei due team per San Francisco a fine marzo 2011.

(MB) Partiamo tra pochi giorni, per un periodo di residenza alla Stanford University con delle presentazioni di lavoro, lezioni, master classes, poi una giornata di proiezioni al MOMA di San Francisco, e una serata nel museo in cui partendo dal ristorante del museo e utilizzando gli spazi delle collezioni fino ad arrivare nell'atrio, faremo interventi cantati basati sulla poesia di Ginsberg.

(AS) Una nuova versione di I Am America?

(MB) Faremo anche I Am America, sì, una nuova versione, non solo a Stanford ma anche al Performance Art Institute di San Francisco, dove per vari giorni faremo inoltre altre presentazioni di lavoro. La matrice di tutti questi materiali diversi è Electric Party, una matrice che cambia, nel tempo e adattandosi al luogo, e accoglie materiali in evoluzione costante. Al MOMA faremo Electric Party Songs, non amplificato, con tre segmenti in tre diverse aree, e in serata una suite di poesie più articolata; durante la giornata ci saranno anche delle proiezioni di film su e di Allen Ginsberg.

(AS) Ma sarà un evento con un grande pubblico?

(MB) Può darsi, ma in condizioni che permetteranno, stranamente, un'intimità.

(AS) Me lo chiedo appunto perché gli spettacoli che ho visto erano sempre con un pubblico limitato, così la relazione tra gli spettatori e gli attori era quasi paritaria, intima.

(MB) Vero. Sai, negli ultimi due anni girando con I Am America ci è stato chiesto di fare lo spettacolo anche per 300, 500 persone, e l'abbiamo fatto. E funzionano sia la struttura che il contenuto, le forme funzionano anche in quelle situazioni.

(AS) Anche su un palco?

(MB) No, con altre soluzioni spaziali. Poi mi sono accorto che è uno sbaglio, perché appunto ciò che agisce a quel livello sono quasi esclusivamente le forme, sonoro e visive, ed il testo, e allora, anche se è contrario all'etica economica dei tempi, preferiamo fare 4 serate per 60 o 70 persone ciascuna piuttosto che una serata per 300.

(AS) A me sembrava un po' come un triangolo: la relazione fra gli attori e te e il pubblico. Sei coinvolto nella stessa relazione.

(MB) Quando hai un pubblico necessariamente anonimo perché al di sopra di un certo numero di persone, è chiaro che anche gli attori tendono a fare massa, applicano un grado in più di forza, e di conseguenza, come avviene nella vita normale quando si applica forza, perdono sensibilità. Se spingo forte con il braccio contro il muro sento meno la temperatura del muro. Per sentire la temperatura di qualcosa appoggio delicatamente la mano. Possono così perdere la cosa che in realtà interessa loro, e che è più sottile, più personale, e che per questo può anche, per interazione col pubblico, creare una sorta di sogno che per intenderci potremmo chiamare archetipico nelle relazioni, non nelle forme. Per esempio vedi una coppia di persone in relazione e vedi due individui, ma qualcosa ti ricorda un'immagine vaga, conosciuta ma difficile da afferrare, eppure familiare, dell'Amicizia. Non nel senso mafioso – sono tuo amico ti paro il culo perché tu mi pari il culo – ma un'amicizia come quella delle favole, come Gilgamesh e Enkidu. È questo quello cui mi riferisco quando accenno a un'immagine archetipica, non mi riferisco a particolari teorie psicologiche. Ciò che si legge nelle favole è, dopo tutto, anche quello un campo dove il teatro è legittimamente ammesso, e può apparire in una situazione performativa, cioè in qualche modo protetta da regole precise. Può apparire per qualche momento.

(PA) Una sorta di complicità?

(MB) Esattamente. Una solidarietà nel cercare una qualità più alta nel tempo passato a lavorare. Parlo della qualità del momento, che fa appello a un desiderio in comune, desiderio che deve essere rinnovato costantemente. Non sempre ho voglia di applicarmi ad un certo sforzo, c'è un carburante necessario che è il desiderio, ed esso fluttua, cambia, sparisce.

(AS) Quello che mi impressiona molto del vostro gruppo è che ognuno rimane molto forte in modo speciale per sé, ma c'è un livello di azione, di energia, di solidarietà che fa correre qualcosa fra di loro, mentre nessuno si perde nel gruppo.

(MB) Il gruppo non esiste in sé, la tua intuizione è assolutamente corretta. Esistono individui responsabili delle loro azioni ed esistono relazioni tra individui, uno a uno, come una catena, una candela che si accende da un'altra candela, un fuoco che si accende da un altro fuoco. Il lavoro che si è fatto nelle ultime tre settimane di prove per noi è stato quello di ritornare di nuovo a questa radice, individuando tutte le abitudini che si sono create in un paio di anni intensi di viaggi e presentazioni, trovandole, scovandole, e vedendo in che cosa bloccano i processi più sottili, dove cioè bloccano la possibilità di una presenza piena. Quando appare questa possibilità l'attore non esegue una struttura, che necessariamente è qualcosa di semplice, banale, come una lista della spesa. Quando esegue una struttura, una certa parte della mente dirige, controlla e guida le sue azioni, il suo comportamento; oppure l'esecuzione diventa essa stessa un comportamento abituale, acquisito, in fondo non molto diverso da un’abitudine, un automatismo. Nei due casi manca qualcosa, c'è un'assenza. Manca quella pienezza del momento che abbraccia anche contenuti inconsci, non volontari. E questo non esclude affatto, anzi richiede, che al tempo stesso tu rispetti perfettamente la tua struttura, che è tua responsabilità di fronte ai tuoi partner.

(AS) Siete in giro già da due anni con I Am America, prima di questo vi siete rinchiusi due anni per svilupparlo.

(MB) Non proprio. Fin dall'inizio questo gruppo si chiama Open Program, ed è letterale. Fin dall’inizio c'erano i membri del gruppo, che chiamavamo core members, e poi altre persone che chiamavamo guests; avevamo fatto un'audizione con tante persone, intorno a 600 richieste. Alla fine, oltre a coloro che sono ora nel gruppo, c'erano una decina di persone che erano interessate, per noi interessanti, che però non potevano venire e stare qui in permanenza, per un motivo e per un altro. Ho proposto loro che per la durata di uno o due anni, potevamo metterci d'accordo e quando erano liberi potevano venire a Pontedera per un mese, due mesi, e poi ripartire. Per poi tornare, e così via.

(AS) Così c'era sempre una presenza dell'altro?

(MB) Sì. E chiunque in quegli anni abbia chiesto di vedere il lavoro è stato invitato. È buffo perché il nome del gruppo è Open Program ma ben pochi hanno inteso la cosa alla lettera, o sul serio… (Forse questo ci parla del peso delle parole ai nostri giorni.) È stato un bel periodo, abbiamo fatto tante visite, in diversi paesi e circostanze sempre varie, anche in case private, cercando situazioni in cui potessimo continuare a sviluppare il lavoro in presenza di amici o di sconosciuti, ma persone che avessero scelto di star lì.

(PA) Per I Am America siete partiti da un testo?

(MB) Siamo partiti da diverse sorgenti, per così dire. Per prima cosa dal lavoro portato avanti ormai da quasi 25 anni al Workcenter sui canti tradizionali di origine africana. Inoltre ho iniziato con questo gruppo a lavorare su Allen Ginsberg, sulle poesie ma non solo, che sono state una sorta di scintilla fondamentale. Nello stesso periodo abbiamo preso a lavorare anche su canzoni del sud degli Stati Uniti, sempre di origine africana. Avevo notato che le composizioni musicali create dal gruppo sulla base dei testi di Ginsberg erano per lo più di natura rock-pop, e cercavo un legame, un ponte tra le canzoni tradizionali africane di area rituale e le canzoni composte dai miei colleghi – canzoni rock, per così dire, sì, ma intrise del lavoro precedente. Il legame evidentemente è stato trovato nei canti del sud degli Stati Uniti. Ma in maniera non calcolata, non programmata. Gli altri canti della diaspora africana con cui lavoriamo, di Haiti o di Cuba, sono canti che sono stati in qualche modo conservati, quasi distillati durante la tragedia degli schiavi, la deportazione, l'esilio. Questi canti spesso hanno continuato ad appartenere a un ambito preciso: quello delle arti rituali, e spesso sono rimasti legati alla lingua d'origine. In America invece i canti dei neri africani deportati come schiavi sono in inglese, sicuramente per una proibizione linguistica e religiosa. Non solo, i generi lì sono per lo più mescolati: canti di lavoro, canti per occasioni speciali, come una festa, un matrimonio, o canti con propositi rituali. Tutto ciò ha dato nascita al fenomeno della musica contemporanea occidentale di massa. La cosa interessante, tra le tante cose interessanti, è che da una parte nei canti del sud degli Stati Uniti è possibile trovare nuclei armonici, vibratori, ritmici, molto simili a quelli di alcuni canti Yoruba. Altra cosa evidente è che i testi spesso non sembrano esser stati scelti solamente per il significato, sovente legato al Vecchio e Nuovo Testamento, ma anche per le qualità vibratorie delle consonanti e delle vocali. E riproducono appunto patterns vibratori di canti ad esempio Yoruba. Affascinante, come una strana coincidenza, è che Ginsberg, parlando della propria formazione e del proprio rigoroso lavoro sulla metrica, racconta di come per lui sia stato fondamentale l'ascolto dei primi musicisti jazz suggeritogli da Kerouac, che lavorava su quelle musiche cercando di scoprire i ritmi della sua prosa. Ginsberg dunque, parlando della sua ricerca dei ritmi della propria poesia, descrive una sorta di ritorno alla poesia classica, dicendo giustamente che è una truffa volerci far credere che la metrica classica sia la metrica quantitativa 800esca o 700esca, invece di forme altamente complesse e realmente classiche di metro, molto più antiche, e che Ginsberg rintraccia nei ritmi del jazz e del blues. Le più antiche ed elaborate forme di poesia in effetti sono forme orali, come le composizioni che hanno poi dato luogo agli Inni del Rgveda – poesia orale, formulare, in cui si gioca con l'improvvisazione di ritmi e nuclei semantici, nella creazione di nuove corrispondenze. E in cui la metrica è, appunto, qualitativa.

(AS) Era chiaro comunque che voi cercavate non solo il testo ma anche il canto, per la vibrazione?

(MB) Certo. La cosa diventa interessante, Angelika, quando la persona che canta non canta. È il canto che canta; quando si canta in quel modo spesso la sensazione è più come se si parlasse. Ci sono delle differenze fisiologiche tra canto e parola parlata, c'è un cambiamento di emissione del fiato, dell'aria, che passa con più velocità. In realtà questo salto non è necessario: il canto è una forma, ma la cosa importante è scoprire la ragione di quella forma e il processo che porta ad essa. Se scopri il processo che arriva alla forma, ti trovi in presenza di un fenomeno naturalissimo, l'articolazione dei sintomi del comportamento umano in momenti di intensità, peak-moments, momenti picco. Tra questi momenti ci sono i momenti di grave dolore o di grande gioia, momenti di grande esaltazione o intuizione religiosa, momenti di abilità fisica in cui siamo capaci di exploit inusuali; oppure quando si corre, e si passa il muro della fatica – non ce la si fa più, ma si oltrepassa questo muro e arriva un altro soffio. Sembra che non stai più correndo, qualcos'altro ti porta, una mano più grande, una forza più potente. In quel momento l'organismo funziona in modo differente, e anche la relazione tra mente e corpo è diversa, come pure la relazione con l'ambiente. In questi momenti, per esempio nei momenti di grande gioia, il comportamento umano – diceva Grotowski – diventa ritmico, la vita diventa ritmo. Nei momenti di pericolo, o di grande intimità, la presenza della persona diventa evidente, è come se si accendesse una lampadina: non puoi non notarlo. La cosa affascinante, quando osservo questo fenomeno, è domandarsi quante volte io non sia capace di vedere quello che mi succede davanti, tutto ciò che invece non é evidente, tutto ciò che non strappa la pellicola della realtà ordinaria.

(AS) E questa evidenza è il punto di arrivo per il vostro lavoro, per I Am America o per qualsiasi altro processo?

(MB) È il momento in cui inizi davvero a lavorare, perché allora si pone la questione di cosa fare con tutto questo. Questa è materia strettamente personale: se sviluppi una capacità appare la necessità di domandarsi al servizio di che cosa essa possa essere.

(AS) Perché deve essere al servizio di qualcosa, perché può essere manipolato? Si potrebbe dire che è una festa. E basta.

(PA) È compresa anche l'estasi come questione mistica?

(MB) Gli attori devono lavorare con orari precisi, lo spettacolo lo devono fare ad una certa ora, non so se è la stessa cosa con i mistici. Quello a cui mi riferisco quando parlo di processi sottili interpersonali sparisce se viene manipolato, si trasforma automaticamente in qualcos'altro, nella copia grottesca di quello che era. Da questo punto di vista il problema non esiste, perché nel momento in cui esiste la manipolazione non esiste più tale ricchezza, ma vuol dire che si è perduto di vista cosa ciò che stavamo facendo. Siamo in un ambito professionale, e dunque è presente un'etica basata su semplici regole pragmatiche che proteggono il lavoro e le persone, in modo che le relazioni professionali non scadano in proiezioni psicologiche personali e in incubi da compagnia di terzo livello.

(AS) Tu segui gli attori della performance con grandissima attenzione; è necessario che ci sia sempre uno fuori che li guarda?

(MB) Tutte le volte che posso mi assento, ma alcune volte è necessario essere presenti, come nelle ultime tre o quattro settimane. Ero in sala 14 o 16 ore al giorno perché lavoravo con una persona per 3 ore, con un'altra 4, e così via. In questo periodo sono stato molto presente, non tanto nell'azione, ma come dici tu nell'attenzione, cercando di fare lo stesso lavoro che era richiesto ai miei colleghi, vedere cioè che cosa nella mia cosiddetta attenzione era diventato una routine, perdendo la capacità di realmente osservare i segni possibili, i blocchi, e quello che stava accadendo realmente. L'evidenza di cui parliamo è aderenza alla realtà del momento, per quanto possibile, e anche il mio lavoro deve cercare di fare la stessa cosa, aderire alla realtà, non alla mia immaginazione. È poi necessario scoprire come non intervenire troppo, lasciar fare, e adesso è assolutamente possibile.

(AS) C'è un punto di fine o di scioglimento per voi, di cose nuove che accadono…?

(MB) È chiaro che è diverso da una normale produzione, di cui generalmente si conoscono già i tempi, le durate contrattuali. Qui si tratta di un lavoro basato sulle necessità legate allo sviluppo della comprensione e della capacità di ogni membro del gruppo. Finché esistono possibilità di scoperta in un certo materiale, in una struttura, vuol dire che essa si sta ancora sviluppando. Per esempio, rispetto al materiale di Ginsberg, stiamo ancora lavorando non solo all'elaborazione di frammenti già creati, stiamo ancora creando materiali nuovi; inoltre riprendiamo, con tutt'altra consapevolezza delle possibilità, cose create 3 o 4 anni fa e che avevamo messo da parte. Per ora non ho idea di che cosa succederà, ma è chiaro che tutto questo è sottoposto alle vicissitudini della vita – una persona viene, un'altra se ne va… Bisogna anche dire che il ritmo è duro da sostenere.

(AS) Già è una situazione straordinaria che persone da tutto il mondo vengano qua, vivano e lavorino a Pontedera.

(MB) A maggio faremo un incontro chiamato Summer Intensive, due settimane in cui Thomas ed io e i due gruppi Open Program e Focus Research Team facciamo un seminario per 30, 35 persone. Sono rimasto sorpreso del fatto che in pochi giorni il seminario si sia riempito, c'erano più del doppio delle richieste. Vuol dire che la gente vuole venire, sa che cosa succede qui e vuole avvicinarsi. Per i miei colleghi è importante, fa loro sentire che i loro sforzi hanno senso anche per il resto del mondo e della società. I miei colleghi lavorano con grande impegno, non tutti sono giovanissimi, non tutti sono 20enni, e diventa difficile lavorare con mezzi molto limitati, ai limiti della sopravvivenza e con un ritmo intenso che ti impedisce di avere una vita normale, se non c'è nessun riscontro esterno.

(AS) Ma questa relazione tra spettacolo (I Am America), altri eventi come Electric Party, conferenze, seminari e proiezioni di film e discussioni, si sviluppa e dal lavoro sul teatro poi si apre sempre di più?

(MB) Fin dall'inizio al Workcenter abbiamo cercato modi nuovi di incontrare persone, che già conoscevamo o sconosciute, in gruppi più o meno piccoli. Abbiamo iniziato a facendo scambi di lavoro, poi piano piano vere e proprie presentazioni di lavoro, poi anche spettacoli, e da sempre l'aspetto della conversazione e del dialogo è stato molto importante. Per dialogare spesso utilizziamo proiezioni di film, per iniziare la discussione da qualcosa di concreto. Ultimamente abbiamo capito che ci sono molti altri ambiti di riunione umana, che stiamo esplorando, diversi da quelli compresi nella connotazione teatro. Per esempio, i club o le scuole, i pub, i posti per riunioni private, le case, insomma circoli di persone che non sono il nostro ambiente abituale. In qualche modo il teatro è il nostro circolo: anche se siamo un po' dei cugini sui generis, siamo parte naturale della famiglia teatrale. Ma ho la sensazione che i nostri siano tempi in cui è necessario fare uno sforzo per uscire dalla propria cerchia, dalla propria tribù, dal proprio clan. Sento che esiste una forte ed inconsapevole tendenza al clan, alla tribù, a leggi disumane, al sangue – questo vuol dire anche sangue mentale, ideologico, di abitudini: persone con cui mi sento bene perché fanno parte del mio mondo e capiscono come parlo e come mi muovo. Sento la necessità di fare questo sforzo, per trovare altri ambiti. È spaventoso quello che succede in Italia. Questa aria chiusa per me è mortale.

(AS) Chiusa in che senso?

(MB) Osservo una grande ignoranza. La vedo nel comportamento per la strada, al bar, la vedo nei contatti con le persone, mi accorgo che quando torno dalle prove la sera, e attraverso a piedi il centro di Pontedera, e sono forse le 22, 23 di sera, le strade sono deserte, ci sono pochi passanti, vestiti normalmente di nero, attorno a rari bar ci sono gruppi di persone che da lontano fanno una certa impressione – c'è una bruttezza, una mancanza di gusto e di cura, di attenzione. Le persone in strada sono diverse da come erano dieci anni fa, non prendiamoci in giro. Parlo di giovani e non solo giovani. Ti accorgi che la qualità dei suoni che ascolti per la strada, (ora sta arrivando la primavera, sono tornati gli uccellini e va meglio) degli odori che senti, dei colori che vedi, i comportamenti di cui ti nutri, le impressioni che ti raggiungono, tutto è di qualità bassissima. È come se fosse sparita addirittura la possibilità di immaginarsi un mondo migliore, per cui necessariamente sparisce il desiderio di rivoluzionare la realtà: se non me ne posso immaginare una migliore, che cosa posso fare? Aspettare, senza futuro, senza presente, una paralisi anestetizzata che però può dare e dà luogo a fenomeni di aggressione, violenza, oggettificazione dell'altro, quando cioè si rende l'altro una cosa, un oggetto.

(PA) ... una perdita del corpo quasi, attraverso questi rapporti mediati dai nuovi media, da internet.

(MB) Cosa si perde quando si perde il corpo? Si perde il cuore, perché non c'è cuore senza corpo. E si perde la capacità di essere più di un corpo, non in senso metafisico, ma nel senso che se tu e io ci incontriamo, quello che è in più del mio e del tuo corpo messi assieme è la realtà che creiamo assieme, la qualità nel tempo che passiamo assieme: è una nostra creazione, che è un di più rispetto al corpo, ai corpi; diventa un'altra cosa, che non è io più te, ma qualcos'altro, un unicum. Tutta la mia possibilità d'azione è limitata alla presenza fisica, al corpo, all'abitare questo corpo ed essa richiede che questo corpo venga accettato, come pure il corpo dell'altro, come qualcosa di misterioso, e che esso possa essere, per usare un'espressione antica, veicolo di altre possibilità. Non solo le possibilità legate alla soddisfazione immediata dei bisogni, ma la realtà che può apparire e modificarsi tra te e me, dove non ci sono corpi, tra te e me. Ci creiamo un mondo a ogni momento, e là sono responsabile.

(AS) Vorrei fare ancora una domanda su I Am America e sul lavoro di Grotowski. Quando si vede I Am America, non è ciò che ci si aspettava da un Grotowski. Era il tuo scopo portare il lavoro fuori da questo cliché? O di far vedere che comunque funziona su più livelli?

(MB) Il mio scopo era prima di tutto scoprire cosa si dovesse fare, di cosa ci fosse bisogno: che cosa, come artisti responsabili che vivono questi giorni, sentissimo necessario. Non si può partire da un'idea: voglio fare qualcosa che non sia grotowskiano. Si può solo seguire la propria tentazione. Se essa è robusta, troverà la forma in cui svilupparsi. Fatto sta che Thomas ed io non siamo mai stati grotowskiani, nonostante Grotowski fosse una persona con alcuni elementi contagiosi. Per esempio la sua allergia a tutto ciò che era morto, vuoto, senza senso, in fin dei conti stupido, era molto contagiosa. Ciò di cui io sono contento e in un certo senso sorpreso, è il fatto che negli ultimi 25 anni il lavoro ha continuato ad evolversi prepotentemente, seguendo le proprie necessità e reagendo ai cambiamenti storici che avvenivano intorno a noi, senza perdere di vista il proprio obiettivo, cioè la ricerca su come questo tipo di attività, l'attività artistica, possa essere al servizio dell’essere umano in quel momento, come cioè la qualità stessa dell'opera d'arte, ti ponga domande, a te come attore, rispetto alla tua qualità di presenza nella realtà storica, ogni giorno. Posso fare un confronto tra come mi comporto quando vado a fare la spesa e come mi comporto in un momento in cui nel mio lavoro c'è una qualità diversa, evidente, con un elemento di oggettività. Se segui un obiettivo nel tempo senza perderlo di vista, necessariamente le forme che prenderà la tua attività cambieranno, perché tu cambi, i tempi cambiano, i tuoi colleghi cambiano, per cui per continuare a fare la stessa cosa bisogna trasformare qualcosa. Non mi aspettavo quello che è venuto fuori con Allen Ginsberg, ma non avevo affatto in programma di fare qualcosa che fosse una sorpresa per gli affezionati di Grotowski. Se penso che questo lavoro sia importante, se voglio che possa essere utile a qualcuno, devo essere capace di farlo in mille circostanze diverse, perché non so cosa succederà domani; niente è stabile. Ma i cambiamenti della realtà sono nutrimento, perché fanno sì che non ci si possa fermare e morire. Aderire alla realtà il più possibile, al di là dell'immaginazione.

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