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Interviste

2013

Kinkaleri

Is it my world?

Marco  Mazzoni, Gina Monaco e Massimo Conti del gruppo performativo Kinkaleri (Prato) in dialogo con Angelika Stepken.


Iniziamo con il progetto Is it my world?

(MM) Is it my world? è un progetto di spettacoli e performance che ha avuto inizio circa due anni fa all'interno dello spazioK, uno spazio autogestito che abbiamo voluto aprire e condividere con una serie di realtà artistiche creando connessioni e relazioni, ospitando progetti di performance, residenze, lavori sperimentali che condividevano la necessità di mettersi in gioco.

Questo è un processo aperto che avete iniziato e che continua?

(MM) Sì, è un progetto aperto nel senso che l'idea era quella di lavorare su una continuità di proposte non troppo regolari, ma determinate dai nostri desideri, dalle possibilità, da una serie di contingenze lavorative, mantenendo sempre il rapporto di libertà che abbiamo con il nostro progetto. Il tentativo era quello di non sostituirsi alla figura del programmatore ma di lavorare in bilico, cosa che si manifesta anche nella relazione che abbiamo con il nostro lavoro.

(GM) Uno spazio per residenze, presentazione di lavori e altro, alternando una serie di occasioni di condivisione e di confronto con gruppi della zona ma anche con realtà europee; quando possiamo cerchiamo infatti di creare delle occasioni di vicinanza e lo spazio stesso materializza questa possibilità. Siamo qui dal 2001 e da due anni questo progetto ha una forma più rivolta verso l'esterno; il titolo, che poi è la domanda stessa, ci piace perché definisce questo luogo come lo spazio fisico di una domanda. Cos'è? Cosa ci appartiene? Cosa potrebbe appartenerci? Questo è un po' il progetto attuale che via via si evolve, trovando ogni volta delle risposte diverse.

L'idea di invitare questi gruppi è dovuta alla mancanza di spazi e economie?

(MC) Cerchiamo di strutturare uno spazio preciso. È vero che il rapporto con il pubblico non è facile, ma è anche un tentativo di portare la domanda allo spettatore che in qualche modo si affida perché non sa esattamente cosa vedrà. Nel senso che il tentativo è quello di essere, anche nel rapporto con la città, un luogo in cui vorremmo far capire che non esiste una sola forma di rapporto con lo spettacolo, che non esiste un solo rapporto con le cose: ecco questo ci sta a cuore.

Ho letto che inizialmente, quindici anni fa, avete iniziato come compagnia di danza...

(GM) Rispetto a un inquadramento ministeriale noi siamo ancora una compagnia di danza, ma questo ha creato sempre un enorme equivoco sul nostro lavoro, nel senso che lavoriamo col corpo e quindi siamo stati iscritti in questa convenzione. In realtà  il percorso produttivo trascende dal lavoro sulla danza in senso prettamente coreografico; la nostra indagine riguarda anche il corpo, il movimento, la presenza scenica, e questo ha creato molte ambiguità rispetto alla nostra posizione. Il nostro lavoro da dieci anni è posto su questo territorio di confine, la domanda per noi è rimasta sempre aperta.

(MC) E' vero però che questa molteplicità ci ha sempre fatto sentire estranei rispetto a tutto, la danza ci accoglie ma allo stesso tempo non ci considera come danza, in altre situazioni siamo visti come un gruppo di teatro. Il nostro essere informe ci ha portato sempre da un lato una grande libertà personale nel fare quello che ci piace e cogliere le occasioni, ma da un punto di vista delle relazioni con i circuiti di mercato, di vendita, di programmazione, diventa tutto più complicato perché siamo sempre considerati come l'elemento di rischio. Questo è anche uno dei motivi che ci ha portati a creare uno spazio del genere, dove ospitiamo coreografi, artisti, musicisti, con un'idea che è sempre stata a metà tra le cose.

(GM) Rispetto a quello che si diceva sulle esigenze economiche, è vero che questo è un periodo di assoluto restringimento di possibilità, di occasioni, di situazioni, di pensiero e che quindi l'idea di aprire uno spazio con una certa densità nelle proposte diventa anche una scelta politica: offrire uno spazio per riaprirsi ad un dialogo e che risponda alla necessità di questo momento...

Cioè anche di creare un pubblico …

(GM) … Di creare una possibilità, perché il pubblico è sparito, gli spazi di confronto sono spariti, le occasioni di far vedere il proprio lavoro sono sparite, quindi ricreare uno spazio di dialogo è anche politicamente lo spazio di una domanda, come si diceva prima. Ci sembrava una risposta al periodo che stiamo vivendo.

Voi da un lato siete in giro per festival internazionali e europei, dall'altro da 15 anni siete a Firenze, a Prato…

(GM) La dimensione europea e quella territoriale sono un po' le nostre due gambe.

(MM) Questo è anche determinato dai diversi lavori e da quanto riesci a distribuirli. Is it my world? si basa anche sul tempo che abbiamo a disposizione, sul tempo residuale del lavoro, della produzione, delle prove, cercando però una continuità dell'offerta e una presenza differenziata sul territorio.

(GM) Perché tutto parte da una cosa: siamo forse uno dei pochi gruppi che ha uno spazio privato, lo paghiamo autonomamente e lo autogestiamo. Questo ci permette una grande libertà organizzativa ma anche un grande peso economico. Forse per l'Italia non è una cosa così abituale…

Anche perché dall'altro lato durante questi 15 anni non vi siete professionalizzati in una maniera istituzionale…

(GM) Infatti, io farei anche un discorso più ampio sulla situazione italiana, perché dopo 15 anni di lavoro e di ricerca senti il bisogno di riaprirti ad un confronto, anche di tipo generazionale. Questo però non corrisponde ad un riconoscimento da un punto di vista della politica culturale di questo paese, quindi alla fine siamo ripartiti ancora una volta autogestendoci questo tipo di passaggio.

(MM) Questo è stato anche determinato dalla nostra volontà di rimanere molto indipendenti rispetto a certe cose, quindi abbiamo spinto poco per entrare dentro a delle istituzioni, a gestirle.

Questa indipendenza significa anche che avete sempre sotto controllo cosa succede …

(GM) Si, significa una grande libertà; come dice Marco è l'unica soddisfazione da quel punto di vista …

Parliamo di All e del vostro processo artistico...

(MM) All è l'ultimo progetto di Kinkaleri, che ha avuto inizio un anno fa, a marzo con il primo laboratorio. La prima esposizione è stata una sorta di concerto, siamo stati invitati da un locale a La Spezia. Una premessa: abbiamo affrontato negli anni una serie di riflessioni sul teatro, sul movimento e sulla danza individuando degli autori. Prima di All ci eravamo focalizzati sulla messa in scena di due testi, lavorare dentro la struttura del testo scritto attraverso due lavori che riguardavano due autori di repertorio: Brecht e Jean Genet. I due spettacoli  affrontavano la messa in scena da un punto di vista drammaturgico: possiamo dire che erano i primi due spettacoli che utilizzavano il testo come forma centrale del lavoro, stratificati poi con altri livelli. Fino ad allora il testo veniva abbandonato in funzione della messa in scena, mentre in questo caso il testo rimane prepotente di fronte allo spettatore e il nostro lavoro si concentra intorno. Dopo questo momento abbiamo iniziato a riflettere su come ripartire, cosa cercare, trovare, e da lì è partito All. Sono nati così una serie di progetti, come ad esempio l'idea di fare un concerto, cosa che non avevamo mai fatto, e quella di inventarsi un alfabeto di gesti per la comunicazione; via via i pensieri si sono stratificati e hanno trovato nella forma di William Burroughs il nucleo per cominciare a riflettere.

(MC) Diciamo che è stato un po' anche uno specchio di quello che abbiamo sempre fatto, ovvero ricercare questo rapporto di libertà e ad un certo punto credo che sia stata proprio una sorta di vicinanza dichiarata. Culturalmente, personalmente, intellettualmente, credo che l'area artistica di pensiero e il rapporto con le cose che ci è sempre stata più vicina è stata questa che Burroughs si porta dietro, (non solo lui ma anche altri autori dagli anni del dopoguerra americani fino ad oggi); la cultura americana del dopoguerra è sempre stata un riferimento per noi. Improvvisamente Burroughs appare come una sorta di specchio, qualcosa che siamo sempre stati ma che ora diciamo chiaramente; partendo da questa figura ci siamo aperti a tutte le possibilità, dal suo rapporto conflittuale con la parola, con il codice, con il potere, con la dimensione politica...

Questo livello che tu definisci conflittuale è centrale per il vostro lavoro in generale …

(MC) Sì anche semplicemente nel continuare a fare quello che volevamo fare. Normalmente parti in una direzione e poi, come si diceva prima, rappresenti la tua ricerca e ad un certo punto si smette di ricercare. Alcune persone non smettono mai di ricercare semplicemente perché fa parte della propria vita, quindi il rapporto tra vita, opera d'arte, politica, stanno tutti nella stessa persona, non c'è più distinzione, tra tempo di lavoro, tempo di studio, tempo dell'arte, ecc.. Questa è stata secondo me la cosa principale che ci ha spinti verso un progetto come questo, dalla creazione di moduli, alla completa diversificazione delle cose e paradossalmente, per la prima volta forse, abbiamo affrontato l'argomento coreografico in termini compositivi, fornendoci un codice, creandolo, per poi poter trovare la libertà all'interno del codice stesso.

Cosa intendi per codice?

(MC) Abbiamo legato ad ogni lettera dell'alfabeto una gestualità, che da un certo punto di vista potrebbe sembrare una cosa molto schematica, invece nel momento in cui viene introdotto, come un microbo, agisce come libertà coreografica di chi lo esegue: non ci sono più linee da seguire, linee formali, ma linee di intensità, dinamica, linee di forze che si contrappongono, si incontrano. Questo per noi è un paradosso: improvvisamente Kinkaleri inventa un rapporto coreografico, nel senso che crea un mondo con le sue caratteristiche.

(MM) C'è un rapporto anche di oggettivazione del gesto, che in scena diventa estremamente personale e soggettivo, quindi l'aver costruito un vocabolario da applicare a dei testi scritti che qualcuno impara a memoria e poi riesegue, in realtà permette di far emergere la propria personalità, perché quel gesto ha una miriade di possibilità di interpretazione, come la parola, il linguaggio. L'idea era proprio di partire da alcuni moduli dentro la struttura, e poi intervenire per far emergere la soggettività delle persone.

(GM) E' uno strano bilico tra oggettività e soggettività: c'è l'oggettività di un codice fatto di gesti e la soggettività dell'esecuzione che, all'interno di una griglia stabilita, definisce dei rapporti personali con l'oggetto stesso, con l'intensità, con il modo di interpretarlo. Nella performance, poi, molto spesso costruiamo una situazione scenica intermediaria tra un dentro e un fuori; ci siamo trovati più volte a presentare il lavoro in situazioni dove l'esterno del luogo di rappresentazione viene messo in relazione con l'interno, creando un rapporto costante di dialogo. Se avviene in situazioni già definite, capannoni o spazi particolari non teatrali, l'idea di sfruttare le aperture possibili per creare delle fuoriuscite permette di stabilire una connessione continua tra il dentro e il fuori, ponendo questo lavoro in una zona intermedia, connessa  con il linguaggio che pronuncia e con la parte di mondo che casualmente incontra. L'esterno, rispetto allo spettatore, assume una forma determinante e diventa l'elemento orizzontale di dialogo. Tecnicamente questo avviene microfonando il fuori, rendendolo presente visivamente e sonoramente e raccogliendo ciò che casualmente accade come un dato oggettivo, mettendolo poi in relazione continua con l'azione che avviene sulla scena. C'è poi un'altra regola che determina l'oggetto stesso; in ogni episodio del progetto si fa riferimento ad una particolare scrittura che i performer imparano a memoria e che costituisce la base formale su cui costruire l'evento.

All dunque non è uno spettacolo ma …

(MM) Sono diversi episodi, capitoli, che non hanno la finalità di diventare un unico spettacolo ma ogni volta esistono per quello che sono; replicabili poi a seconda delle circostanze perché episodi scritti, non improvvisazioni, trasformabili di volta in volta a seconda dei luoghi, del testo e di quello che stai cercando di affrontare. Ogni volta tariamo e misuriamo la performance che mettiamo in atto.

Lavorare con questo processo è un'esperienza nuova anche per voi?

(GM) Dipende, noi abbiamo sempre lavorato con processi di avvicinamento, a volte più definiti, a volte più sfumati; diciamo che tutto il percorso è fatto spesso da capitoli. A volte studiavamo per poi arrivare a una forma che in qualche modo racchiude l'esperienza di un tempo. In questo caso è l'inverso: sono tanti episodi autonomi perché le forme messe in atto sono diverse. Come diceva Marco, la stessa forma di concerto sperimentata a Villa Romana fa parte di questo stesso mondo. Sono oggetti singoli che ogni volta si determinano con regole diverse e si concludono.

(MM) Direi quasi che è più un lavoro sulle regole che ci diamo di volta in volta, perché in realtà in All abbiamo assunto una serie di linguaggi che vengono messi in gioco. Per esempio la vicinanza che ho trovato con Burroughs in questo progetto era il suo resettare pensieri in favore di forme, che in qualche modo erano le sue applicazioni per scrivere una cosa nuova, generare un altro pensiero. Queste sono cose che sono state molto utili, non tanto per applicare il suo pensiero a quel lavoro, ma come modalità per riflettere sulle varie possibilità. Il movimento stesso, l'idea del codice, è vero quello che dice Gina, può mettere in determinate circostanze il danzatore che con la sua soggettività si confonde con quell'ambiente naturale che gli sta attorno. Però è anche vero che può esistere anche nella sua forma pura, perché quel codice emerge e si trasforma anche in altro, perché poi in realtà tutte le cose nel momento in cui sono messe in scena parlano per i riferimenti che mettono in atto…

(MC) Tornando al discorso iniziale sul linguaggio, tutto quello che abbiamo detto si riferisce al rapporto con Burroughs e al suo legame politico col mondo, il rapporto con la conflittualità che viene posta in essere nella libertà dell'artista di mostrarsi e di trovare qualcuno pronto ad ascoltarlo, disposto ad essere infettato dal virus; pensare che anche il rapporto con la parola e col mondo può essere molteplice e non soltanto quello dominante in cui la parola serve al potere, al dominio. Ritornando poi al discorso coreografico sul reale e sulla rappresentazione, direi che è legato allo spazio come abbiamo già detto, ma diventa elemento centrale di tutto il lavoro perché anche il danzatore è continuamente in questo dentro /fuori, esiste in quanto esecutore ma allo stesso tempo soggetto: quindi questo rapporto è costantemente posto su diversi piani. Il rapporto con il reale è un rapporto di rappresentazione continua. La difficoltà che esiste è quella di pensare a quei segni soltanto come segni da interpretare, in realtà fanno parte del reale. Questo è un po' quello di cui ci siamo accorti...

Questo è anche per evitare un falso espressionismo, una falsa rappresentazione …

(MM) Abbiamo sempre affrontato l'espressionismo individuando dei meccanismi dove il corpo veniva portato ad assumersi quella forma non perché la rappresentava ma perché il contesto intorno lo costringeva a metterla in atto. Il pathos che potevi trovare in certi lavori di Kinkaleri non era perché i danzatori dovevano semplicemente far finta di esserci dentro, ma perché erano costretti a una dinamica che in un certo momento si rivoltava nel loro corpo come uno stato; per esempio la stanchezza, questa stanchezza faceva in modo che loro diventassero loro malgrado espressione della forza.

Ma è anche perché già un individuo in sé è corpo, pensiero, emozioni …

(GM) È un soggetto. E' come l'idea della comunicazione: io ti sto parlando ma in qualche modo sto anche determinando me stessa in questo rapporto, questi elementi coesistono.

(MC) Infatti un altro capitolo è rivolto proprio a quello che pensa un danzatore quando fa un lavoro come questo, perché si trova a pensare dentro e fuori di sé contemporaneamente senza affrontare la forma ma affrontando lo spazio, il tempo, il ritmo, e tutto nella simultaneità del testo, perché l'agisce ogni volta avendo in memoria non la forma ma il testo. È tutto dentro uno spazio piccolissimo, che il danzatore traduce continuamente: tempo, spazio, codice. È una situazione che da una parte è molto concreta.

(GM) Infatti questo lavoro di traduzione è sempre presente e non rinuncia mai all'espressione, alla presenza scenica, al virtuosismo del danzatore; anche dove l'uso del corpo diventa virtuoso, questo viene centrifugato con tutti gli altri elementi del progetto mostrandosi a tratti. Per questo in questo lavoro usiamo corpi educati: corpi che hanno un'idea di ritmo, di tempo, di spazio.

(MM) Abbiamo per questo deciso di affrontare il lavoro con forme compositive molto veloci. Tutti questi spettacoli nascono partendo anche da alcune riflessioni che devono trovare  una concretezza in tempi limitati, perché in realtà hai un pensiero, una regola, la applichi e l'accetti nella sua struttura. Esiste in questo lavoro l'idea della velocità con cui le modalità di composizione dei lavori possono strutturarsi in diverse forme;  per esempio a Villa Romana nei quattro giorni di residenza abbiamo costruito il lavoro con i musicisti, una sorta di dialogo interno /esterno che permette un ascolto continuo, determinato anche dal tempo con cui rendi possibili queste scelte.

E anche la presenza del tempo che si percepisce.

(
MC) Sì, la presenza del tempo; accettare l'attitudine all'esecuzione delle cose nella propria presenza, essere lì, accettarlo, volerlo, e voler trovare a tutti i costi una possibile soluzione.

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