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Interviste

2008

Clemens von Wedemeyer

Una delusione necessaria

Clemens von Wedemeyer (Vincitore del Premio di Villa Romana 2008) a colloquio con Bert Rebhandl.


Da un punto di vista dei contenuti che cosa ti ha spinto a girare Die Probe (La prova)?

La molla per Die Probe sono state le elezioni degli ultimi tempi e in modo in cui oratori di talento ed esperti riuscivano ad appassionare e a riunire in uno stadio folle entusiaste. Se lo si vede come un rapporto simbiotico, mi chiedo allora che cosa accade se una delle parti si sottrae a questo accordo dicendo no nel momento meno opportuno? Si vede bene che in alcuni politici la forma del discorso, lo spin, viene perfezionandosi durante la campagna elettorale. Ma quando si abbassa l'adrenalina di questa campagna? Ho tentato più volte di scrivere un discorso di rinuncia all'incarico che avrebbe dovuto essere tenuto da un attore nel ruolo del politico, poi ho spostato la situazione dietro le quinte, in quella fase di passaggio, in quella breve pausa, all'inizio sempre frenetica, tra la vittoria alle elezioni e il discorso di ringraziamento. La prova è divenuta quindi piuttosto uno spazio vuoto, un’occasione forse per riacquistare coscienza.

Un politico che ha perfezionato il modo di mantenere il potere rinunciando ai contenuti politici, sottrae alla politica il suo ultimo contenuto, se stessa, e crea uno stato d'emergenza.

E' esattamente così. Ho visto un paio di film su questo tema, per esempio 1974, une partie de campagne di Raymond Depardon o Der Kandidat su Franz Josef Strauss. Ma molto materiale si trova specialmente in internet. Sono riprese video fatte nel backstage che ti fanno sentire un voyeur che si insinua nella situazione intima di una persona. Ma tutto questo può risultare utile al politico nel momento in cui decide di rendere pubblico ciò che è privato – quante più persone lo vedono, tanto meglio è.

Come interpreti la logica del loop in questo caso?

Da una parte il loop è legato all'esposizione in una mostra, nel senso che mi sta bene se ci si ritrova dentro ad una scena durante la proiezione del film cercando un proprio approccio al contesto. Dall'altra, durante la pianificazione mi sono accorto che grazie al loop viene rafforzata un'incertezza, cioè ci si chiede se il discorso venga realmente pronunciato e se portiaddirittura ad un aumento del potere, in altre parole se il rifiuto, in quanto fatto del tutto eccezionale, possa portare ad un'autorità ancora maggiore del presidente.

La rinuncia all’incarico è dunque il vero colpo di scena. Il loop quindi esprimerebbe il fatto che i rapporti di potere in quanto tali non sono eliminabili – non ci si può dimettere da essi. La struttura è più importante del risultato. Mi sembra che attraverso la forma del loop si giunga anche ad uno sguardo dietro le quinte: vediamo il politico in una situazione dietro la quale potrebbe sempre ricadere – è quasi impossibile interrompere o annullare il gioco.

Forse è così, che attraverso il duplice sguardo sorge una sorta di (necessaria) delusione. E' un pezzo teatrale, con entrate e uscite di scena di attori e comparse, la macchina da presa è fissa come lo spettatore in teatro, e d'altronde non esiste una direzione che guida il lavoro; la cosiddetta quarta parete è chiusa. Walter Benjamin afferma a tal proposito, credo, che se la rappresentazione non viene osservata da uno spettatore diventa proiezione…. Come spettatore non si ha nessuna possibilità di intervenire, si può solo dare il proprio assenso. L'unica possibilità di interrompere la pura conferma è forse il loop, che simula un altro aspetto del contenuto e invita all'analisi. In altri lavori mi sono confrontato con la delusione – per esempio contrapponendo un pezzo del film progettato e messo in scena ai suoi sfondi reali o ad un altro aspetto, relativizzando cosi successivamente l'illusione del film. A volte questo è accaduto con un Making of oppure l'anno scorso a Münster nel mio lavoro Von Gegenüber (Da di fronte), dove la macchina da presa nel film e lo spettatore uscito dalla sala cinematografica attraversano lo stesso spazio.

Alla skulptur projekte münster nel 2007, hai creato per così dire un scultura cinematografica temporanea, al cui centro c'era un loop che però seguiva un ciclo naturale – mattina, sera, giorno, notte.

A Münster prima di tutto mi sono interessato di tutti i cinema ancora esistenti perché volevo proporre un progetto che si occupasse del cinema in quanto spazio – volevo avvicinarmi alla scultura attraverso il film. Ciò che volevano li era soprattutto un confronto con lo spazio pubblico da un punto di vista del contenuto. A Münster ci sono ancora solo tre cinema, nessuno dei quali in centro. Tutti hanno dovuto chiudere a causa dell'enorme Cineplex e probabilmente anche per mancanza di interesse. Uno di questivecchi cinema non era stato ancora ristrutturato, esisteva uno spazio vuoto che ricordava la sala cinematografica. Le sedie non c'erano più, il proiettore era stato smontato. Sembrava una spoglia morta e la mia idea era quella di concepire questo spazio veramente come se fosse un corpo in cui lo spettatore può entrare. All'interno si guarda lo schermo come attraverso gli occhi di un'altra persona che si trova fuori dal cinema. Una possibilità sarebbe stata quella di fare un foro nella parete esterna in modo da ritrasformare la sala cinematografica in una camera oscura. Davanti al cinema c'è la stazione di Münster e là circola continuamente gente che avrebbe fornito un interessante oggetto di osservazione. Ma il foro nella parete mi sembrava troppo poco, troppo poco film…

… al cui centro c’è un uomo, un senzatetto, che i passanti spesso ignorano e che è invisibile anche nel film, perché sta dietro la macchina da presa e il film è girato dalla sua prospettiva.

Mi ero accorto che era sempre la stessa gente a passare davanti al cinema, che soprattutto erano uomini anziani che a passo lento facevano sempre la stessa strada. La stazione di Münster è anche il punto di ritrovo dei senzatetto che sono stati allontanati dal centro elegante della città. Quindi con la macchina da presa volevo percorrere le stesse vie che fanno i senzatetto per farne un film che si dissolvesse nella quotidianità: la macchina da presa attraversa lo spazio pubblico, ma allo stesso tempo lo vuole abbandonare, guarda e non guarda, uno sguardo soggettivo che oscilla ed evita lo spazio pubblico, in cui non trova né una sfera privata, né calma. Mentre giravo mi venivano in mente anche i paradossi di Samuel Beckett in Film

... in cui Buster Keaton, famoso per le commedie Slapstick, attraversa il paesaggio urbano alla chetichella come se volesse rendersi invisibile.

Sì, Buster Keaton si rende invisibile, sottraendosi agli sguardi quando è in pubblico e coprendo addirittura tutte le immagini di occhi nel suo appartamento. Scrive Beckett nella sceneggiatura: "esse est percipi", "essere significa essere percepiti". Come ci si deve sentire alla mercé degli sguardi altrui quando ci si ferma in stazione per 24 ore al giorno, senza una casa propria, sempre sotto gli occhi di tutti? In Film Beckett si occupa anche dello sguardo soggettivo che egli separa dalle altre, riprese creando delle immagini sfocate… Quanto allo sguardo soggettivo pensavo piuttosto ad una macchina da presa che riprendesse i movimenti di chi la porta. Grazie a questa oscillazione sorge una sensazione soffocante come quella dei film sperimentali di Michael Snow, dove la macchina da presa si muove all'impazzata e grazie a questi movimenti si ha l'impressione della tridimensionalità dello spazio filmato: il mondo esterno diventa scultura perché fisicamente percepibile.

In concreto com’è stata la realizzazione del film Von Gegenüber? Sicuramente per alcuni aspetti le riprese sono state complicate.

Abbiamo girato otto sequenze di cinque minuti ciascuna. Ogni sequenza si svolge a distanza di tre ore, per cui il film mostra un'intera giornata. Ogni inquadratura è un piano-sequenza in cui la macchina da presa percorre una strada. Il cameraman (Frank Meyer) portava la macchina da presa Arri da 35 mm sulla spalla, accanto a lui un assistente metteva a fuoco l'immagine, mentre io stavo dietro insieme al microfonista con un monitor di servizio e un apparecchio radio per dare il ciak. In diversi punti della stazione e dell’area circostante si erano nascoste le comparse, gli attori e gli assistenti che partecipavano ad un’azione, a volte solo per dieci secondi. Pensavo che i passanti non coinvolti avrebbero guardato di più nella macchina da presa, ma la grandezza della macchina da presa sembrava avere un certo potere che li lasciava senza parole e rendeva i loro sguardi inespressivi. La gente scherzava solo quando eravamo li solamente con il suono. In realtà per questo film avrei voluto che i passanti avessero guardato nella macchina da presa come se fosse una persona che si muove nello spazio pubblico senza sentirsi a proprio agio. La macchina da presa come Elephant Man. Visto però che la gente a Münster non era impressionata, lavoravamo con delle comparse che facevamo guardare nell'obiettivo. Anche la macchina da presa doveva mantenere l’equilibrio tra rivolgere e distogliere lo sguardo. Durante le settimane precedenti avevamo programmato tutto in uno storyboard fotografico. Per ogni piano-sequenza di cinque minuti ci è servito almeno un giorno di riprese.

Da dove deriva il tuo interesse per il piano-sequenza che nella critica cinematografica viene attribuito ad una posizione specifica dell’osservatore, cioè al soggetto riflessivo e non indottrinabile?

Dopo la lavorazione per i miei film Occupation (Occupazione), Big Business (Grande business) e Silberhöhe in cui il montaggio aveva un’importanza fondamentale, era nato l'interesse di sperimentare inquadrature più lunghe. Quando ho fatto il film Otjesd (Partenza) l'uso del piano-sequenza era evidente. Ciò era legato all'invito alla prima Biennaledi Mosca e mi sembrava ovvio che la carrellata andasse bene per un film ambientato in, o meglio sulla Russia. I paesaggi cinematografici dell'Est europeo che conosciamo parlano spesso nel linguaggio di queste carrellate; mi fa pensare per esempio all'ungherese Béla Tarr che in questo ha raggiunto una maestria di maniera. Il metodo usato da Sergej Ejzenstejn prevede l'interruzione tra un'immagine e l'altra, per lui le immagini giustapposte devono fondersi in una sola tramite il montaggio. Per Michelangelo Antonioni, come spesso negli anni 1960, la rottura non è più tra un'immagine e l'altra, ma all'interno dell'immagine stessa. Vi sono tagli all'interno di uno zoom o in un dettaglio di un grande contesto. E per Andrej Tarkowski la rottura è tra l'immagine e lo spettatore. Lo schermo è un taglio tra la sala (luogo della rappresentazione) e lo spazio cinematografico (luogo della produzione).

Come intendi il rapporto tra cinema, inteso come medium commerciale e spesso narrativo, e il tuo lavoro di cineasta in quanto artista? Siamo sempre nella fase della critica all'apparato, come nella teoria e nell’arte degli anni 1970, o è il proseguimento di una storia di fascinazione in produzione propria?

Cerco di appropriarmi del cinema o del film autonomamente, senza però riuscire a dimenticarmi di tutto il contesto del medium, rispetto al quale sono diffidente. Forse dipende anche dai discorsi con la mia professoressa Astrid Klein e con i compagni di studio durante il periodo universitario. Dunque è vero che desidero fortemente smascherare i meccanismi dell’apparato, ma perché questo mi affascina. Ciò che m'interessa è fare dei film tecnicamente buoni per arrivare all'effetto dell'illusione. Sto imparando proprio questo. Innanzitutto bisogna veramente accogliere il materiale per poi cadere nel gioco di maniera o in altri errori che subentrano nel film, a volte volontariamente e a volte involontariamente (per esempio in mancanza di tempo). In inglese esiste il termine suspension of disbelief, sospensione del dubbio, e ciò non si riferisce solo al cinema, ma al modo in cui funzionano le immagini che accettiamo. È proprio questa la macchinacinema, i cui meccanismi sono applicabili anche ad altri campi. Ciò che m’interessa dell'arte è il fatto di non essere soli nel momento in cui si è diffidenti verso questa immagine del cinema o del film. M'interessa l'approccio concettuale piuttosto che quello puramente narrativo. Concetto e narrazione dovrebbero incontrarsi a metà strada. Devono combinarsi bene l'uno per l'altra. La sceneggiatura, la produzione, il luogo d'azione – nel caso ideale ciascuna parte avrebbe il suo link concettuale.


Pubblicato per la prima volta nel catalogo della mostra Freisteller nel Deutsche Guggenheim, Berlino. (c) Gli autori e la Deutsche Bank, Francoforte 2009.

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