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Interviste

2020

Luke Mason

Notes from the waiting room #2

Il tema del simposio FREE (THE) ARTISTS?, che volevamo organizzare dall'8 al 10 maggio a Villa Romana, è particolarmente attuale in tempi di pandemia. In tutti i paesi, gli artisti sono stati duramente colpiti dal crollo delle loro economie. In Italia, dove la professionalità degli artisti è difficilmente riconosciuta, né tantomeno protetta dalla società, si stanno organizzando numerose iniziative per aprire un discorso politico sul valore del loro lavoro (vedi ad esempio artworkersitalia.it). Con il testo di Luke Mason sull'importanza dei contratti nel posizionamento sociale degli artisti, vogliamo offrire un contributo a questa discussione. Luke Mason, filosofo e teorico del diritto all'Università di Birmingham, si occupa nelle sue pubblicazioni di diritto del lavoro e di politica sociale, in particolare della natura dei rapporti di lavoro e della loro costituzione secondo la legge. Il suo testo è stato discusso lo scorso anno durante il Caveat Reading Room # 12. Caveat (www.caveat.be), con sede a Bruxelles, è un progetto collettivo di ricerca che ha come obiettivo la riflessione-azione sull'ecologia della pratica artistica.


Lavorare secondo concezioni non autentiche: alcune avvertenze sui significati predominanti di libertà artistica e di libertà contrattuale
Luke Mason

I contratti e gli artisti hanno una storia recente piuttosto simile: entrambi emergono come visioni dominanti dell’esistenza e dei modi di vita umani che accompagnano il lungo illuminismo occidentale, dal periodo tardo medievale ai nostri (alquanto confusi) tempi tardo-moderni. Benché forme contrattuali e artistiche siano esistite in tutta la storia umana, non hanno mai posseduto l’odierna coerenza concettuale e rilevanza sociale. L’eclissi delle visioni prescrittive del bene, e la ribalta dell’individuo con le sue scelte portatrici di valore, hanno fatto sì che il contratto e la figura dell’artista siano entrambi diventati mezzi per esprimere alcune idee, ma anche, per estensione, l’apoteosi di una determinata visione dell’umanità. Il contratto, un accordo tra individui autonomi che esprime l’assunzione di impegni reciproci, ha sostituito la volontà di Dio o la legge naturale come base per tutte le discussioni su come potrebbe essere una società giusta. Tutto ciò ha generato i patti sociali tra istanze concorrenti di Hobbes (Hobbes 2017), Locke (Locke 1821), Rousseau (Rousseau 2017) e Rawls (Rawls 2009). Il contratto ha contribuito a generare anche l’idea dominante del costituzionalismo e della legittimità dello Stato moderno. Al tempo stesso questo processo ha dato vita a visioni radicali e opposte della giustizia, basate sulla natura inviolabile degli accordi tra individui, come quello del libertarianismo di Nozick (Nozick 1974), assieme al concetto moderno dell’egemonia del mercato, dell’economia ortodossa e di quasi tutta l’economia eterodossa, secondo la quale il bene più grande si ottiene attraverso il libero scambio di impegni in linea con la percezione personale del bene (Posner 1987). La nostra visione dell’essere umano virtuoso, affidabile, onesto e capace di pianificare corsi di azione è profondamente legata alla centralità dei contratti e della loro stretta connessione col concetto di promessa (Fried 2015). La nostra capacità di trattare con persone che non conosciamo, o che non capiamo, è infatti delegata a un sistema che sostituisce le promesse tra amici con i rapporti tra estranei (Kimel 2003) – Durkheim ha notoriamente descritto questi sistemi di diritto privato come solidarietà organica della complessa società moderna, che si sostituisce alla solidarietà meccanica tipica delle piccole e omogenee comunità, in cui la punizione è alla base del sistema di regole che la governano (Durkheim 1997). Allo stesso modo il filosofo del diritto Herbert Hart, mettendo in luce la genesi di sistemi di regole con le quali le persone sono in grado di creare e cambiare i propri obblighi, distingue le società in pre-legali e legali – ciò che egli chiama regole secondarie (Hart 2012). In ultima istanza il contratto emerge come base centrale per descrivere noi stessi e le strutture di interazione che governano le nostre vite. Gli aspetti più significativi della nostra vita, dal matrimonio al lavoro, sono ora discussi quasi esclusivamente attraverso il lessico del contratto, sia metaforicamente sia legalmente. L’essere umano moderno è nulla senza contratto.

La figura dell’artista è un prodotto affine all’interno della medesima genesi della modernità. Mentre l’arte e l’estetica hanno fatto parte di visioni condivise della crescita umana e della vita buona sin dall’antica Grecia, e sebbene l’arte sia rimasta una costante in tutte le società, l’‘artista’ come lo conosciamo oggi è inseparabile dalla tarda modernità e dall’egemonico processo di feticizzazione dei contratti. Man mano che l’individuo emerge come fonte di valore finale, e persino l’unica, di pari passo l’idea di ‘autenticità’ diviene la metrica alternativa per giudicare il valore dell’individuo e delle sue intraprese. Questo standard normativo diviene pressoché irraggiungibile per gli individui alla luce del requisito kantiano (Kant 2008) secondo cui si agisce per un impegno nei confronti del diritto universale piuttosto che per l’interesse personale. Da ciò discende il rifiuto dei principi dominanti ereditati – e in definitiva privi di fondamento – della saggezza convenzionale, al fine di delineare il proprio cammino individuale. Questa tendenza unisce l’apparente nichilismo di Nietzsche (Nietzsche 2012), l’esistenzialismo socialmente impegnato di Sartre (Sartre 1977) e il comunitarismo sfumato di Charles Taylor (Taylor 1992). Ed è proprio la ricerca di questa autenticità che progressivamente giunge a dominare la nostra discussione sulle arti e sulla cultura popolare. Molta arte viene giudicata attraverso meta-criteri secondari ed estranei all’intrinseca qualità dell’arte: gli artisti hip-hop si vantano incessantemente di tenere i piedi per terra, e altri artisti musicali vengono scartati perché giudicati prefabbricati o finti. L’arte, da questo punto di vista, raggiunge il suo potenziale quando diviene un atto di sfida contro la tradizione ereditata, emergendo dall’essenza dell’artista come un miracolo di autenticità. L’‘artista’, in questa prospettiva, è l’apoteosi dell’iper-individuo dell’iper-modernità: nell’immaginazione moderna l’artista è venerato per la sua profonda autenticità, per il non essere inquinato dalle esigenze di ciò che si trova arbitrariamente là fuori, ovvero il risultato di coincidenza, storia e possibilità.

Qual è dunque l’incontro tra questi due simboli paralleli della modernità: i contratti come obblighi concordati da individui sovrani e gli artisti intesi come vera essenza di questa individualità sovrana?
Nell’apparente logica della storia sin qui raccontata, questo incontro si sostanzia nell’inevitabile mercificazione dell’opera dell’artista; il valore dell’autenticità dell’opera d’arte è ricompensato dall’acquirente-sovrano, ovvero dall’individuo che attribuisce maggior valore all’opera. Questo processo rafforza contemporaneamente sia la scelta del consumatore sia il valore del produttore, giacché consente alla merce d’essere messa nelle mani di chi la valorizza maggiormente, massimizzando al contempo la ricompensa materiale dell’artista (Posner 1986). Questa è la visione dell’artista come parte del mercato dell’arte, un’espressione detestabile che evoca una sorta di ecologia economica, integrata da un’etica simile a quella del mercato delle auto usate. D’altro canto questa visione è straordinariamente potente proprio perché alimenta l’immagine di un artista che abbraccia il Sé autentico assieme all’ideologia economica del self-made man; una combinazione che a sua volta ben si adatta all’immaginario tipicamente bohémien della forza creativa anticonformista – che gli artisti spesso percepiscono incarnata nella propria persona. Questa rappresentazione permette di concepire un modello economico in cui l’artista non è gravato dalle strutture di potere e dallo sfruttamento del lavoro dipendente, rendendolo libero di sviluppare la sua arte, e in effetti di vivere in modo profondamente autentico. Il lavoratore ordinario fa parte della razza dei topi. L’artista è libero. Infine questa visione consente agli artisti di percepirsi come capaci di qualcos’altro: di diventare non solo liberi ma pure ricchi. Se gli artisti, al contrario dei normali impiegati e della loro vita inautentica, sono pagati per un manufatto mercificato piuttosto che per il loro tempo, quel manufatto può essere valutato a un livello che consente all’artista di godere di una libertà materiale amplificata, che a sua volta deriva dalla ricchezza ottenuta e dalla conseguente possibilità di impiegare il tempo in ulteriori atti creativi autentici. Si costruisce, così, un circolo virtuoso determinato dalla creazione di ulteriore tempo finalizzato ad altri atti di autenticità; si tratta di un circolo virtuoso di ricompensa ed intrapresa contro il quale le forme più antiche di lavoro artistico, dall’artigianato al tirocinio tipico del mecenatismo feudale, non possono sperare di competere.

Ovviamente questa storia ci pone dinanzi alcuni problemi significativi. In primo luogo, come tutte le storie ben ordinate, nasconde una moltitudine di sfumature e di realtà oscurate da questa stessa pulizia. In secondo luogo, come tutte le belle storie, da più domande che risposte. E la domanda, che quasi ci costringe a chiedere, è cosa si intenda con il concetto chiave di tutta questa storia: l’individuo che diviene sovrano di sé stesso, fonte di valore e di autenticità attraverso le sue scelte e i suoi conseguenti accordi contrattuali. In definitiva questa storia ci costringe a interrogarci sullo slogan supremo della modernità, fine e base di partenza di tante altre idee fondamentali: la libertà. Se i contratti sono considerati la giustificazione dei nostri obblighi è perché ciò riflette una profonda convinzione retorica: gli obblighi sono giustificati dal nostro impegno volontario verso essi. Se gli artisti sono riveriti per la loro autenticità, è perché apprezziamo questa profonda forma di libertà esistenziale. È in questo punto della narrazione che, come avvocato del lavoro e filosofo politico del diritto, posso legittimamente inserirmi. Le idee di libertà e morale, pensate all’interno delle strutture culturali, giuridiche e valoriali che pretendono di riflettere, rivelano una serie di ostacoli e complessità. Se conferiamo valore alla libertà e alla capacità di auto-legiferare, assieme ai benefici che ciò comporta, dobbiamo considerare due aspetti: in primo luogo, quali sono le condizioni che promuovono questo insieme di circostanze? E in secondo luogo, quali sono le forme e le regole culturali più adeguate a raggiungere tali condizioni? Sarebbe molto sorprendente constatare che le forme feticizzate delle transazioni contrattuali, e l’idea di un individuo profondamente sradicato e ‘autentico’, siano davvero il modo migliore per creare condizioni di libertà personale – assieme a un’ecologia economica capace di sostenere una fiorente prassi artistica.

È a partire da queste considerazioni che una riflessione su CAVEAT! può propriamente iniziare. Il progetto è incredibilmente ambizioso, come devono essere le idee che ambiscono al raggiungimento di obiettivi concreti. Il progetto riunisce un gruppo di artisti per ripensare, all’interno dell’ecologia economica, la loro collocazione sociale e lavorativa. CAVEAT! si trova a metà strada tra un progetto artistico astratto e una forma di autoetnografia, nella quale gli artisti mappano la comprensione di sé stessi all’interno di processi e di interazioni con i fattori di produttivi nell’arte. Non sorprende osservare come i temi emersi da questi dialoghi autoetnografici siano in effetti i tre elementi chiave di qualsiasi sistema settoriale di diritto del lavoro: il lavoro svolto dalle persone, le strutture di proprietà esistenti e le strutture normative e di governo che stabiliscono le regole di ingaggio per tutte le parti in causa. In breve: lavoro, capitale, legge. Il lavoro di CAVEAT! ha tuttavia rivelato una profonda ambivalenza fra pratiche e atteggiamenti degli artisti. Mentre il progetto cerca di interrompere le pratiche di sfruttamento del modello commerciale del mercato dell’arte – privo di connessione e preoccupazione distributiva per l’ecologia economica e culturale dell’arte, e delle realtà sociali che la producono – gli artisti percepiscono un’autentica forma di libertà all’interno di un’esistenza precaria, al di fuori di relazioni protettive che potrebbero mitigare l’imprevedibilità di tale modello commerciale. Gli artisti, in breve, abbracciano la libertà di un lavoro che non è governato o controllato da altri attori istituzionali, privati o pubblici che essi siano. Il modello contrattuale commerciale, in cui l’artista si separa emotivamente e cognitivamente dal manufatto prodotto, sembra essere un’inversione della tradizione marxista. L’analisi sociale, culturale ed economica marxista avrebbe apparentemente mentito per più di un secolo e mezzo sulle basi giustificative del diritto del lavoro: attenzione al lavoratore piuttosto che al prodotto del suo lavoro. Secondo il pensiero marxista, il lavoratore è alienato dal suo lavoro perché fa parte di un processo produttivo spersonalizzato: il capitale espropria il lavoratore del risultato del suo lavoro prendendosi una parte del valore, di fatto il valore generato dal lavoratore. Per l’artista, come emerge nell’esplorazione di CAVEAT!, la risposta a questo stato di cose è di raddoppiare l’espropriazione: il lavoro dell’artista non è ciò che viene valutato o pagato. Il risultato finale del lavoro artistico, separato dall’artista, viene venduto all’utente finale, all’istituzione o all’organizzazione. In questo modo, la percezione di sé dell’artista non è contaminata da alcuna interferenza col processo esistenziale dell’essere un artista.
C’è chiaramente un enorme buco cognitivo in questa versione dei fatti, ed è proprio questo buco che CAVEAT! sta cercando di riempire. Escludendo deliberatamente il processo e le condizioni in cui vengono prodotte le opere d’arte, gli artisti cadono nella trappola di presumere che le forme dominanti di autenticità e contratto siano le uniche esistenti. In realtà, essendo inserite in sistemi di regole e valori, sono forme doppiamente indeterminate. Le regole sono strutture che devono essere applicate alle realtà sociali per avere un qualche significato. Ciò comporta, in prima istanza, un complesso processo di interpretazione su come una serie di credenze ideologiche e politiche funzioni da filtro semantico, trasformando concetti basici in strumenti che conferiscono significato all’interazione sociale (Holmes 1897; Kennedy 2007). In secondo luogo, come sistemi sociali, alle regole può essere attribuito solo il significato che viene loro conferito dalle persone soggette a tali regole (Ehrlich 1936). Se tutte le persone coinvolte in una partita di calcio iniziassero improvvisamente a giocare secondo regole diverse, queste diverrebbero le nuove regole del gioco. La combinazione di questi due fattori ha significati drastici per gli artisti e per la loro ecologia produttiva: ne sono totalmente responsabili, almeno in connessione con le altre persone che sono ugualmente coinvolte. Tuttavia, poiché le regole del gioco per garantire il funzionamento del sistema dipendono dal coinvolgimento degli attori nel gioco stesso, gli artisti divengono comproprietari delle strutture economiche cui sono soggetti.

Questo è un insieme esilarante e al tempo stesso terrificante di constatazioni. Tuttavia, significa una cosa chiara sin dall’inizio: il fatto che l’autenticità e il contrattualismo siano alla base di una profonda comprensione di noi stessi è solo un mero punto di partenza della discussione. Nessuno dei due concetti ha un significato stabile e, soprattutto, nessuno dei due è collegato a una particolare e ben determinata visione dell’autonomia, della libertà o dell’autodeterminazione. In effetti se ci preoccupiamo dell’autodeterminazione e della libertà come condizioni di base per una buona pratica artistica, dobbiamo innanzitutto chiederci cosa significano veramente queste due espressioni. Sicuramente non significa che gli artisti siano lasciati a sé stessi, come marinai solitari nelle acque agitate dell’oceano. Mentre gli altri artisti-marinai nelle loro piccole imbarcazioni – autenticamente bagnate e traballanti – lottano per creare grandi opere d’arte, enormi navi da crociera navigano lì vicino, e occasionalmente li invitano per capriccio a bordo. La scelta di tale precarietà da parte dell’artista autentico abbraccia così una forma impoverita di autenticità e una realtà contrattuale priva di fantasia. La libertà di produrre grandi opere d’arte si configura come un insieme di condizioni sia materiali sia spirituali, e la libertà di determinare i propri obblighi attraverso contratti è ampia quanto l’immaginazione delle parti contraenti. Queste due dimensioni non dovrebbero essere intese come idee pre-concepite in maniera separata, ma piuttosto come due concetti indeterminati e interdipendenti che gli artisti devono tenere insieme in un’unica riflessione: quali sono le condizioni nelle quali l’artista può possedere massima autonomia e massima autenticità per il suo lavoro, e quali obblighi volontari derivano da questa visione?

La libertà, e per estensione l’autenticità, non possono essere comprese in un mero vuoto privo di interferenze esterne. Anatole France, quando affermò che secondo la legge sia i ricchi sia i poveri erano liberi di dormire sotto i ponti, avrebbe potuto parlare in maniera specifica proprio degli artisti (France 1896). La libertà consiste nelle condizioni che consentono di determinare i contorni delle proprie azioni e quindi il loro significato. E questo processo si sostanzia in una domanda sociale che viene negoziata in maniera permanente. L’unico modo per garantire l’assenza del dominio degli altri è pertanto di negoziare con questi altri condizioni per cui le persone possano sostenersi a vicenda nel loro sviluppo umano. Questa è una concezione sociale della libertà. Essa riflette due realtà fondamentali: il significato che dà forma alle scelte individuali, alle comunicazioni e alle azioni di tutte le persone ma in particolare per gli artisti, il cui lavoro alla fine può essere ristretto a un significato sociale condiviso. "Nessun uomo è un’isola." "Non esiste una lingua privata." (Wittgenstein 2010). L’artista non può prendere sul serio la sua ricerca di autenticità se questa è socialmente dislocata: l’autenticità dipende dal possesso di alcuni strumenti e di un linguaggio comune per consentire una rivisitazione giocosa di forme e significati condivisi. Gli artisti non possono fare nulla, non possono essere artisti se non hanno gli strumenti per realizzare questa funzione. La nozione dell’artista autentico e sradicato è pertanto incoerente. Eppure questa concezione ha un peso sociale rilevante, che dipende perlopiù dalla paura del dominio, della colonizzazione, della commercializzazione, della banalizzazione. L’artista vede sé stesso come una persona che chiede la libertà di produrre un’opera. E questa libertà può essere messa a rischio dai reciproci obblighi derivanti da un riordino del rapporto tra lavoro, capitale e legge. Ha ragione a temere ciò, poiché esiste, come abbiamo visto, un’ideologia dominante che ha conferito significati predominanti a questi elementi centrali. Ma a quanto pare sono gli stessi artisti a far propria, e più di chiunque altro, questa ideologia. Gli artisti si impongono una visione socialmente sradicata che nega loro gli strumenti da cui dipende la loro funzione. Questo non è un nobile atto di abnegazione. È l’incarnazione di un’ideologia politica che nega il ruolo cruciale dell’artista nella funzione mediatrice dell’interazione sociale.

È qui che entrano in vigore i contratti. È qui che la forma contrattuale dimostra la sua apertura divenendo il modo predominante per descrivere questi obblighi. Sebbene sia la forma dominante di determinati modelli economici e ideologici, nessuno ha il monopolio su di essa. Questo può essere dimostrato dall’uso metaforico proprio della teoria politica, in cui i contratti sociali non sono mai effettivamente concordati, ma semplicemente adoperati per dimostrare come una persona razionale accetterebbe determinati obblighi in uno spirito di rispetto reciproco con i propri concittadini. Questo può essere visto dall’uso altrettanto metaforico in contesti come il contratto matrimoniale, che non riguarda singole transazioni economiche di tipo mercificato. Il neoliberalismo non ha il monopolio della forma contrattuale. I contratti sono, nel loro senso più semplice, un mero meccanismo che consente lo scambio di obblighi reciproci. In molte situazioni il modello transazionale, in cui una cosa viene scambiata con un’altra percepita di valore commisurato, è abbastanza lontano da questo paradigma, poiché, nella sua forma più pura, il contratto in questione non si materializza mai, scomparendo non appena lo scambio ha luogo. I resti della transazione persistono solo in termini di aspettative di qualità e di prestazione delle cose scambiate. Questo tipo di contratto è inappropriato per promuovere l’artista autentico e autodeterminato di cui abbiamo discusso in questa sede. Se quest’artista guidato dal valore autenticità prende sul serio la percezione di sé stesso, deve anche prendere seriamente in considerazione l’idea che l’ecologia all’interno della quale lavora, e che supporta e crea le condizioni per tale autonomia, debba essere strutturata da obblighi reciproci. La forma contrattuale offre uno strumento migliore e più flessibile per raggiungere tale obiettivo, poiché essa è negoziata dagli attori coinvolti, è flessibile e, soprattutto, è relazionale.

Questo è ciò che CAVEAT! sembra aver scoperto riguardo agli artisti: i contratti sono strumenti che creano fiducia e che distribuiscono il rischio in progetti e relazioni longitudinali. Quando gli artisti operano in un contesto istituzionale, necessitano di strumenti per chiedere che la loro indipendenza e autonomia siano coltivate all’interno di una condivisione del rischio durante tale relazione lavorativa. Il contratto relazionale non è pertanto uno mezzo per inculcare il dominio, ma è piuttosto uno strumento per chiarire quanto l’autenticità, che gli artisti giustamente tengono in grande considerazione, dipenda dalle condizioni materiali e dalle aspettative, che divengono pertanto un prerequisito della pratica artistica autonoma. La teoria dei contratti relazionali (MacNeil 2001) è, in realtà, nella sua infanzia; ma i contratti relazionali si trovano ovunque: negli affari, sul lavoro, tra gli stati nazionali. Ovunque sussiste una relazione c’è una forma di contratto relazionale che precisa gli obblighi reciproci e che rende la relazione vincente. Nei contratti commerciali, tali obblighi divengono innanzitutto implicite dimostrazioni di buona fede e di reciproco accordo. Sebbene le negoziazioni contrattuali mirino spesso a raggiungere dalla controparte contrattuale l’obiettivo migliore per il prezzo più basso, una volta che si è all’interno di questa relazione questo obbiettivo viene ribaltato. Le parti contraenti sono infatti reciprocamente dipendenti.

CAVEAT! ha contribuito a costruire un dialogo su queste domande cruciali. È una scossa di realtà per artisti che apparentemente rifiutano alcune forme di lavoro, ma al contempo abbracciano le ideologie che perpetuano le condizioni che negano loro proprio l’autonomia e l’autenticità che richiedono a gran voce. D’altro canto anche CAVEAT! pare cadere nella medesima trappola retorica.
Che cos’è, in fondo, CAVEAT!? È semplicemente una conversazione? È un insieme di strumenti che gli artisti possono adoperare? È un progetto artistico autoriflessivo, destinato a cadere nella stessa trappola che studia? È una forma di elaborata messa in scena? Produce un meraviglioso insieme di riflessioni in assenza delle strutture relazionali che propugna? Questa tragedia va inoltre sommata al fallimento parallelo di non riuscire a cambiare le percezioni degli artisti? La trappola qui sembrerebbe essere l’illusione di una radicale rielaborazione della pratica artistica. In realtà siamo di fronte alla mera rappresentazione di una serie isolata di atti e interazioni di artisti che lavorano in maniera autoriflessiva (e a tutti gli effetti autentica) su un progetto che rispecchia una visione del mondo profondamente radicata (e magari bella e pregna di significati) ma che può sperare di cambiare il mondo solo con un miracolo che trasformi le percezioni, e al contempo incarni l’autonomia e la natura commerciale delle pratiche che cerca di sconvolgere. Da questo punto di vista il problema di CAVEAT! non è inerente alla pratica contrattuale, che pare essere più che giustificata. Al contrario, è che si tratta di un progetto su una prassi contrattuale collocata all’interno del mondo dell’arte, che chiede agli artisti di approfondire la riflessione su sé stessi, rischiando di cadere nell’egocentrismo e in una eccessiva auto-indulgenza. Non c’è nulla di sbagliato in tutto ciò. L’arte ha a che fare con conversazioni che riflettono sulle proprie pratiche, e l’arte ha valore in sé: ars gratia artis. Tuttavia una conversazione sulla trasformazione della prassi artistica, invece di contribuire fattivamente al cambiamento, può scivolare rapidamente in un’ulteriore pratica artistica. Poiché si tratta di artisti che tentano di cambiare il modo in cui lavorano, è necessario pensare ai cambiamenti da attuare al di fuori di questa pratica auto-riflessiva. Com’è possibile?

La reazione di un avvocato del lavoro in questo caso è probabilmente prevedibile, ma non per questo meno importante. Date le condizioni condivise di tutti gli artisti, ma la natura radicalmente separata delle loro pratiche lavorative, come può un progetto come questo funzionare se non trascendendo le differenze con un sindacato per gli artisti, un sindacato che crea il dialogo relazionale per conto di tutti i professionisti dell’arte? Gli artisti come possono vivere nella percezione di uno spazio di lavoro autonomo mentre si preoccupano di questi problemi? Il massimo sfruttamento degli artisti si ottiene dicendo loro che sono artisti? Il successo di CAVEAT! sembra dipendere dalla sua capacità di costruire forme istituzionali da cui dipendono strutture relazionali. Un contratto relazionale per artisti deve essere permanentemente capace di essere applicato e interrogato, per forzare il dialogo e la negoziazione da cui dipende un contratto relazionale. CAVEAT! potrebbe trasformarsi in gruppo di interesse auto-organizzato? Un gruppo che ascolta le controversie e i disaccordi tra artisti, istituzioni e clienti; e che mediando e arbitrando trova soluzioni per promuovere un’ulteriore dipendenza reciproca, assieme alla condivisione del rischio di intrapresa? Ciò creerebbe un insieme di pratiche che progressivamente potrebbero essere integrate negli scambi tra artisti e istituzioni, così da dipendere sempre meno da quest’ultime. Un contratto relazionale è in definitiva una conversazione che fornisce soluzioni per un impegno condiviso nel creare le condizioni che possono generare risultati reciprocamente vantaggiosi. CAVEAT! finora è una conversazione su questa conversazione; spetta agli artisti incarnarlo, modellando così il mondo in cui cercano l’agognata autenticità.

Traduzione dall’inglese: Pierluca Birindelli


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