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Mostre

Friday 16 February 2024

Notes On The Wake. Rhapsody and Lamentations in Three Acts

Exhibition

Vernissage,19:00 onwards
Performances, 19:30 - 20:30

Notes On The Wake. Rhapsody and Lamentations in Three Acts is a critical invitation to grieving and resting well in three acts, through the practices of Leo Asemota, Lerato Shadi and Helena Uambembe. The exhibition opens with performances and readings by Helena Uambembe, Naomi Kelechi Di Meo and Leo Asemota.


Curated by Mistura Allison, in the framework of Whole Rest, IX Edition by Black History Month Florence.

Notes on the Wake:
Rhapsody and Lamentations
in Three Acts
By Mistura Allison


Veglia: lutto, celebrazione, memoria e coloro che, tra i vivi, ne piangono la scomparsa e ne celebrano la vita.
i vivi che, attraverso un rituale, ne piangono la scomparsa e ne celebrano la vita, in particolare il vegliare di parenti e amici accanto al corpo del defunto dalla morte alla sepoltura e il bere, il banchettare e le altre osservanze connesse.

Nella veglia, il passato che non è passato riappare, sempre, per rompere il presente.

Christina Sharpe, In The Wake: On Blackness and Being (2016)

Un ronzio silenzioso.

Nella quiete della contemplazione, dove il passato e il presente convergono, la mostra si svolge come un'elegia, un omaggio riflessivo all'intricata danza della memoria, dell'identità e del tempo all'interno della diaspora africana. Questa mostra e la sua contemplazione navigano nelle acque della testimonianza, della vigilanza e del lutto - ogni artista contribuisce con un verso a questa narrazione elegiaca.

La meditazione di Christina Sharpe sul vivere "nella wake" offre un quadro toccante per questa riflessione. Il "lavoro sulla veglia (wake work)", come lei stessa definisce, è una pratica di attenzione agli echi persistenti del passato nella nostra vita presente, una forma di resistenza contro la marea dell'oblio. È all'interno di questa scia che troviamo Map of a City (2001) di Leo Asemota, un'intricata mappatura della memoria e della testimonianza attraverso il paesaggio urbano di Londra. Le fotografie di Asemota all'interno dei libretti di appello dei testimoni sparsi per la città non servono solo come documentazione, ma come elegia visiva della miriade di vite senza nome che hanno plasmato, e sono state plasmate, dalla storia della città. Questo lavoro, nel catturare gli effimeri messaggi di appello, sottolinea l'atto della testimonianza come uno sforzo sia comunitario che profondamente personale, facendo eco all'affermazione di Sharpe secondo cui "la veglia" è uno spazio condiviso di lutto e memoria.

Con Gaufi e Kgakala (2023), le grandi tele di lino grezzo di Lerato Shadi, segnate in rosso da un flusso di pensieri, incarnano la dimensione temporale e tattile della memoria. Ogni tratto e parola inscritti sulle tele parlano delle narrazioni personali e collettive della diaspora, narrazioni che, come ci ricorda Bell Hooks, sono profondamente intrecciate con le politiche di riconoscimento e appartenenza. Il lavoro di Shadi, nella sua forma grezza ed evocativa, ci invita a immaginare le possibilità di guarigione e di connessione attraverso l'atto di testimoniare le nostre storie e quelle degli altri.

L'installazione di Helena Uambembe, Booming in Statis (2023), offre un contrappunto ai temi del movimento e del cambiamento. Qui la stasi non è sinonimo di silenzio o di assenza, ma è invece uno spazio risonante pieno di echi di lotte e trionfi passati. Quest'opera incarna le riflessioni di Akwaeke Emezi sul sé come sito in costante divenire, dove l'identità non è né fissa né singolare, ma è invece una continua negoziazione con il passato e il presente. "Sono sempre una moltitudine di moltitudini", scrive Emezi, invitandoci a considerare i modi in cui le nostre identità sono plasmate dalle storie che portiamo con noi e dai futuri che immaginiamo.

Riflettendo sull'elegia di Naomi Di Meo a se stessa più giovane, la mostra invita gli spettatori a una simile introspezione. La prosa elegiaca della Di Meo, una tenera riflessione sulla crescita, la perdita e il passare del tempo, rispecchia l'impegno della mostra nel testimoniare non solo il mondo esterno, ma anche i paesaggi dentro di noi. È un richiamo al fatto che il lutto e la memoria non si limitano a guardare indietro, ma sono anche atti di autocompassione e riconoscimento, un modo per onorare il viaggio del divenire.

Nel sottile gioco di luci e ombre, "Notes on the Wake: Rhapsody and Lamentations in Three Acts" tesse un arazzo di perdita e amore, un'elegia collettiva e individuale dell'esperienza diasporica. Attraverso le opere di Asemota, Shadi e Uambembe e le parole riflessive di Sharpe, hooks, Emezi e Di Meo, la mostra testimonia il potere di mantenere uno spazio per il lutto, per la memoria e per la miriade di modi in cui vegliamo sugli echi delle nostre storie condivise e singolari. In questo spazio, il tempo è incarnato non come una progressione lineare ma come un ricco palinsesto, un archivio vivente di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che potrebbe ancora essere.

there was a girl i once knew

By Naomi Kelechi Di Meo


I always mourned for my younger self. I mourned the way she walked, and spoke about the things she liked. I mourned how she was already pretty rebellious on wanting to choose her clothes for elementary school, never giving her mother the chance to prep her outfits.

I mourned how she looked at herself in the mirror without feeling like an empty plastic bag floating on the streets abandoned and forgotten by its previous owner. I mourned how she belonged to nobody but herself. I never understood why I felt that way about my childhood self until I learned what men can do to women regardless of their age.

I mourned for the innocence that was stolen from me, piece by piece, by the lingering gazes and the whispered words that sliced through my soul like a knife. I mourned for the days when I could walk with my head held high, unencumbered by the weight of sexualization and the power it held on my body.

I grew up feeling like an outsider in my own skin, as if my Blackness was a costume I couldn't remove, a label that allowed and justified  men to consume me with no hesitation. It was as though parts of my body ceased to belong to me, becoming public property for others to dissect and scrutinise at their leisure. Every glance felt like a violation, every word a reminder of my perceived otherness. I longed to reclaim the autonomy that was stripped away from me, to feel whole again in a world that seemed determined to turn me into a ghost within my own skin.

But no matter how hard I tried to bury my true self beneath layers of conformity, the echoes of my lost identity lingered, a constant reminder of the girl I once was and the woman I could have become.

As I reflect on my youth, I realise that my mourning extends beyond the loss of innocence; it encompasses the erosion of my self-worth and the gradual descent into self-loathing. It began with the insidious ways in which men would leer at me, their eyes stripping away layers of my humanity until all that remained was a vessel for their desires.

I was barely a child when I first felt the weight of their gaze, when innocence was replaced with a suffocating sense of shame. Their words, laden with suggestive undertones, twisted my perception of myself, transforming me from a carefree girl into a prisoner of my own body and their own fantasies. With each passing year, the scrutiny intensified, as if my worth could be measured by the curves of my hips or the fullness of my lips.

I learned to shrink myself, to hide beneath oversized clothes and averted eyes, desperate to escape the constant barrage of objectification. I was barely 7, I never thought i would compare myself to the toys i used to play with.

But no matter how hard I tried to shield myself from their eyes and hands, it followed me like a shadow, infiltrating every aspect of my existence. I became hyper-aware of my body, dissecting it piece by piece in a futile attempt to reclaim ownership over what had been taken from me.

The loss of innocence was not a singular event but a slow, agonising process, punctuated by moments of profound despair and resignation. I watched as my peers blossomed into confident young women, while I remained trapped in a perpetual state of self-loathing, unable to recognize what I was becoming.

The feeling of grief I carry is not just for the loss of innocence; it's a mourning for the shattered pieces of myself scattered along the path of my existence. It's a sorrow that seeps into the very core of my being, leaving me adrift in a sea of uncertainty, unsure if what I am now remotely resembles what I once was.

The lines between who I am and who I am expected to be blur until they are indistinguishable, leaving me feeling like a stranger in my own skin.

Even though I have grown to accept the body I call my home, I cannot help but feel a pang of sorrow for the girl I once was and the woman she could have become. Despite the strides I have made in reclaiming my identity and rebuilding myself from the graveyard they made of me, the grief for what was lost still lingers, a silent companion in my journey through life.

For even as I embrace the woman I have become—resilient and patient—I cannot shake the feeling that somewhere along the way, a part of me was left behind, buried beneath the weight of being Black and a woman.

I mourn for the dreams that were shattered, for the opportunities that were denied, and for the innocence that was stolen from me before I had the chance to truly see it bloom.

I never thought it was possible to miss a version of oneself that I barely remember and no longer exists. I just hope I can spot her in my reflection one day.  


Biografie


Leo Asemota è originario di Edo. Risiede a Londra e nella sua città natale, Benin City, in Nigeria.

Lerato Shadi è un'artista nata a Mahikeng che attualmente vive e lavora a Berlino. Ha studiato arte visiva all'Università di Johannesburg e ha conseguito un master in Strategie spaziali presso la Weißensee Academy of Art di Berlino nel 2018. Nel 2018 ha ricevuto il premio Alumni Dignitas dall'Università di Johannesburg e nello stesso anno Shadi è stata borsista a Villa Romana a Firenze, in Italia. Le sue opere sono state esposte a livello internazionale in numerose mostre personali e collettive, tra cui alla Bundeskunsthalle di Bonn, Germania (2023), al Kunstmuseum di Wolfsburg, Germania (2022), al Palais de la Porte Dorée e al Musée d'art moderne entrambi a Parigi, Francia (2021); in mostre personali al KINDL - Centre for Contemporary Art, Berlino e al Kunstverein di Amburgo, Germania (2020); durante la 14a Biennale di Curitiba in Brasile e al SAVVY Contemporary, Berlino, Germania (2019); Kunsthal Amersfoort, Olanda, Zeitz Museum of Contemporary Art Africa a Cape Town, Sudafrica (2018). Il suo lavoro video Mabogo Dinku ha fatto parte del programma Artists' Film International 2020, organizzato dalla Whitechapel Gallery di Londra, e presentato in istituzioni artistiche di tutto il mondo. Nella primavera del 2022, la sua monografia è stata pubblicata da Archive Books, Berlino.

Helena Uambembe è un'artista angolana-sudafricana il cui lavoro interroga la relazione diadica tra il politico (politica mondiale) e il domestico (politica personale). Attingendo alla storia personale e familiare, Uambembe mappa lo spazio ideologico e intimo creato dai legami storici e coloniali tra la storia angolana, dell'Africa meridionale e globale. Questa complessa storia familiare (essa stessa una rottura delle attuali narrazioni accettate dell'Africa post-coloniale), il 32° Battaglione, Pomfret e la sua eredità angolana sono temi dominanti nel suo approccio multidisciplinare. Nel 2022 Uambembe ha ricevuto il Baloise Art Prize 2022 per la sua installazione What you see is not what you remember, esposta ad Art Basel, Statements Section. Attualmente vive a Berlino, dove è borsista del Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD).


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Villa Romana è stata fondata nel 1905 da un artista per gli artisti, come spazio in cui sperimentare, respirare e vivere insieme. Un luogo in cui la convivenza potesse diventare un'opportunità di impegno artistico individuale e di cambiamento comunitario.

Villa Romana non è una villa, non è un museo, ma una casa. Non è un'arcadia, ma un luogo reale, con le sue sfide e le sue crepe; uno spazio fisico e mentale dove sentirsi al sicuro e a volte inquieti, come nella vita. Questa è la deliberazione fondamentale e fondante al centro della fase appena avviata di questa istituzione in divenire.

Dal 2023 Villa Romana si trasforma in A House for Mending, Troubling, Repairing, dispiegando una nuova visione e un nuovo programma per la storica residenza per artisti fondata quasi 120 anni fa da Max Klinger. Nutrendo un laboratorio ospitale e critico per artisti, attivisti, operatori culturali, comunità diasporiche, bambini, animali e piante, il programma prevede un'agenda e un clima che si confronta con il nucleo stesso dell'istituzione Villa Romana: le sue infrastrutture, i suoi abitanti, la sua comunità, la sua località e il suo giardino. Vedere la Villa come una casa per creare gli strumenti e le pratiche per affrontare tempi che ci chiedono una riparazione radicale e planetaria di un mondo asimmetrico.

I tempi di crisi in cui viviamo ci costringono a ripensare il modo in cui coabitiamo il pianeta e a riconsiderare alcuni dei valori fondanti della cultura occidentale - una cultura che si è scoperta ecocida ed epistemica nei confronti di sistemi di conoscenza diversi dalla grande narrazione eurocentrica. Per immaginare un futuro ecologicamente e socialmente sostenibile, Villa Romana si apre come laboratorio di riflessione critica e di confronto, come spazio di sperimentazione socio-artistico-culturale e, allo stesso tempo, come laboratorio e casa per lo sviluppo di strumenti e pratiche che ci permettano di affrontare la difficile opera di riparazione a cui siamo chiamati. Proponiamo un programma che abbraccia un percorso di autoriflessione istituzionale e di trasformazione infrastrutturale. Un percorso che parte dalla pratica della coabitazione e si caratterizza per il fare insieme, per il pensiero ecologico e per l'agire antirazzista e antidiscriminatorio, per elaborare pratiche di convivialità radicale, inclusione, condivisione e restituzione.


Credits

Curatrice: Mistura Allison

Direttrice: Elena Agudio

Amministrazione: Claudia Fromm

Produzione Mostra: Giulia Del Piero

Casa: Ala Turcan, Victor Cebotaru

Assistenza: Maike Wild

Food Rituals: Kaaj Tshikalandand

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Ringraziamo: Folasade Ogunyade. I nostri antenati. Leo Asemota. Lerato Shadi. Helena Uambebembe. Naomi Kelechi Di Meo (aṣe). Elena Agudio. Claudia Fromm. Giulia Del Piero. Ala Turcan. Victor Cebotaru. Maike Wild. Radio Papesse*. Justin R. Thompson. Janine Gaëlle Dieudji e tutto il team di The Recovery Plan. Edo. Jaki.
Siamo grati per la continua collaborazione istituzionale e il supporto di: Kunsthistorisches Institut in Florenz - Max Planck Institut (KHI), The Recovery Plan.
Ringraziamo il consiglio direttivo di Villa Romana per il suo costante sostegno e il Kuratorium per il suo impegno.
Villa Romana è sostenuta da: Bundesbeauftragte für Kultur und Medien (BKM), BAO Stiftung, Deutsche Bank Stiftung.

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